Tutta la sofferenza che non si vede dietro le sbarre

«Sì, sono morte in carcere, si sono suicidate… Chissà che cosa avevano fatto, però!». Potrebbe essere l’epitaffio sulla tomba dello Stato di diritto o della concezione liberale della pena...

«Sì, sono morte in carcere, si sono suicidate… Chissà che cosa avevano fatto, però!». Potrebbe essere l’epitaffio sulla tomba dello Stato di diritto o della concezione liberale della pena come espiazione con annesso e connesso il reinserimento sociale e civile del detenuto. Ed in un certo senso lo è. Se non che il dibattito sulla fisiognomica delle sbarre e sul suo rappresentare l’immagine della nazione stessa, del suo gradi di evoluzione e di civiltà, rimane aperto.

A differenza delle celle che rimangono troppo spesso chiuse, dove chi ha infranto la Legge viene segregato oltre che recluso. I suicidi di questi giorni, di due donne alle Vallette di Torino e di un uomo in Calabria, sono all’onore delle cronache per la concomitanza con cui si sono verificati.

Se si fossero dispersi in un lasso di tempo maggiore, probabilmente sarebbero passati dentro le scalette dei telegiornali e sulle colonne dei quotidiani senza troppo clamore, finendo per rappresentare quello che molti, soprattutto a destra, vorrebbero che fossero: una delle tante eventualità cui può portare una condotta di vita sconsiderata.

Il mettere avanti a tutti il delitto prima della pena è tipico di chi vuole creare per la propria comunità (e quindi anche per sé stesso) un alibi tanto ampio e vasto quanto l’incoscienza cui si condanna nel non vedere il disagio che il carcere esponenzializza in coloro che non hanno compiuto crimini orribili, stragi, omicidi di massa, associazioni a delinquere di stampo mafioso, camorristico, ‘ndranghetista…

Boss siciliani conquistati alle patrie galere a favore di telecamere, pur malati e prossimi alla fine, hanno detto senza mezzi termini che loro, di pentirsi, proprio non ci pensano.

Ma se si suicidano due donne e un uomo, se la tollerabilità del “clang” delle sbarre diventa ogni giorno più insopportabile, per prima cosa la cosiddetta “opinione pubblica” ritiene di dover prima vagliare il casellario giudiziario e, solamente dopo, valutare se concedere o meno un misero briciolo di umana pietà.

Una delle due donne morte a Torino, Susan John, nigeriana di quarantatré anni, era accusata di traffico di esseri umani. Un crimine spregevole, per cui era stata condannata dopo un lungo periodo agli arresti domiciliari. Aveva un figlio autistico di quattro anni, che avrebbe voluto ogni tanto poter vedere. Pare fosse una richiesta incessante. Inascoltata. Si è lasciata morire di inedia, rifiutando cibo, acqua per oltre venti giorni.

L’altra donna, Azzurra Campari, si è invece impiccata nella sua cella. Quando aveva occasione di videochiamare la madre al telefono le parlava di una sofferenza psicologica interminabile, del non riuscire più a sopportare quella condizione. La durata della carcerazione che avrebbero dovuto ancora scontare, vista la relativa brevità per entrambe, non è alla base della loro morte.

Non si sono lasciate morire e non si sono impiccate perché avevano decenni da trascorrere alle Vallette. Si sono arrese alla fine perché le prospettive per loro, dentro e fuori quelle mura, erano ridotte al niente. Lo Stato ha assistito, ha osservato, si è trincerato dietro le pratiche burocratiche, ha lasciato nell’inconoscenza persino i garanti dei detenuti e non ha, comunque, alla fine fatto nulla per salvare queste persone detenute.

Lo scorso anno i suicidi nella carceri italiane sono stati ottantacinque. Nei primi sei mesi del 2023 siamo già arrivati a ben oltre la metà della cifra registrata nel 2022.

Sono dati drammatici che dovrebbero cancellare tutte le polemiche sulla durezza delle pene da scontare, perché alla fine la pesantezza delle mura, delle sbarre, del sistema nel suo complesso si riversa sui soggetti più fragili, su quelli che sono, in sostanza, dei delinquenti molto comuni.

Se poi sono anche vittime di qualche errore giudiziario o se, come Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e tanti altri, sono finiti nelle case circondariali per “errore” (molto tra virgolette), se è una condotta di abuso di potere che li ha sbattuti là dove il cielo e il sole si vedono solcati da enormi righe che si intrecciano fra loro, allora quel peso si moltiplica al cubo, diventa veramente non sostenibile.

La politica del governo delle destre, in questo senso, guarda ad un ampliamento delle strutture detentive: a fare delle caserme dismesse – Nordio dixit – dei luoghi dove la carcerazione per i soggetti meno pericolosi socialmente avrebbe un carattere differente da quello solito, meno impattante sul fisico e sulle menti.

Il guardasigilli assicura che l’esecutivo intende migliorare la condizione di tutte e tutti coloro che rimarranno nel sovraffollamento carcerario ben noto tanto a noi quanto al resto d’Europa. Ma fino ad oggi i finanziamenti al DAP sono stati tagliati e molto poco è stato fatto per incentivare le attività dei detenuti, per farli uscire mentalmente dalla prigione in cui si trovano e, nello stesso tempo, avviare quei percorsi di reinserimento sociale cui dovrebbe mirare tutto il nostro sistema penitenziario.

Ci possiamo chiedere, senza cadere nella già udibile accusa di “buonismo“, se nei confronti delle Susan e delle Azzurra che stanno nelle galere d’Italia è mancato un percorso di vicinanza, soprattutto psicologica, che permettesse di rintracciare le avvisaglie di un malessere protrattosi nel tempo, visto che una delle due per oltre venti giorni ha rifiutato cibo e acqua e si è lasciata morire?

E’ troppo “buonista” domandarsi come mai una ragazza si mette una corda al collo e supera la pena che le è stata inflitta, decide di togliersi la vita e di rinunciare quindi ad uscire di lì a poco dalla cella e ricominciare daccapo? Come può il regime carcerario essere più forte dell’istinto di sopravvivenza, dell’autoconservazione, della voglia di andare oltre le sbarre e di riconnettersi con l’esistenza vera e propria?

La risposta non è una sola, perché le domande anzitutto sono tante e si affastellano, si compenetrano, finiscono per cumularsi e divenire un libro bianco dei suicidi nelle carceri della Repubblica.

Una vergogna per l’Italia, una macchia su quella limpidezza democratica e sulla sua presunta modernità. Una medaglia al disonore per uno Stato che è incapace di impedire la stragrande maggioranza dei drammi che si consumano attorno ad uno sciopero della fame che il ministro della Giustizia nega in quanto tale.

Non c’era – dice Nordio – dietro le motivazioni del lasciarsi morire di Susan una rivendicazione politica, come nel caso di Cospito. C’era qualcosa che, lascia intendere il ministro, non poteva essere gestito con una trattativa da parte degli organi competenti. C’era una disaffezione quasi intrinsecamente singolare, affidata ad un soggettivismo del caso che è diventato, in questo modo, impalpabile, inesprimibile con lettere e richieste, con carte bollate e altri documenti.

Chi si lascia morire senza accusare lo Stato di una inumanità specifica, finisce con il diventare invisibile. E muore dopo venti giorni. Per Azzurra l’agonia non è stata la mancanza di cibo, ma la mancanza di un futuro, di un senso da ritrovare, di un significato da ripercorrere insieme ad una società che fa sempre tanta fatica a riconoscere il pagamento dei propri torti con l’espiazione delle pene.

Il ministro Nordio vorrebbe aprire nuove carceri. Non si sa come le gestirebbe, visto che già oggi nelle carceri vergogna di questo Paese il personale addetto è sotto organico del 20% con un 30% di detenuti oltre la capienza delle strutture.

Ma la destra è brava solo con i numeri elettorali, quando deve agitare lo spettro del securitarismo per dare qualche garanzia di tranquillità quotidiana ad una popolazione che, nei fatti, non riesce a vivere decentemente e per cui il tema del salario minimo diventa un serio pericolo di tenuta del governo stesso.

Una seria riforma carceraria dovrebbe essere poter parte di una riforma della giustizia che interpreti alla lettera i dettami della Costituzione: conservando l’equidistanza della magistratura da qualunque altro potere dello Stato, preservandone l’indipendenza e l’autogoverno; facendo del processo la prima garanzia dell’imputato da un lato, se innocente, e quella del popolo italiano di avere giustizia, se chi è sotto esame è colpevole.

Il passo seguente dovrebbe essere quello di rendere l’istituto carcerario non un supplizio, bensì il luogo in cui si vive diversamente rispetto alla società propriamente detta perché questo esige un patto comune in merito al rispetto delle regole civili e democratiche.

Ma il carcere, lo si sa, è funzionale a questo sistema economico e politico. E’ la pattumiera delle nazioni, è quel perimetro inaccessibile e non scavalcabile in cui mandiamo ad esistere, e a morire…, la gran parte di coloro che sono stati costretti a delinquere per tentare una sopravvivenza in contesti di rifiuto, di alienazione, di esasperazione singola o familiare, di scontro aperto con un regime di regole e discipline che è sordo ai bisogni più elementari delle persone, dei cittadini.

Il carcere, senza scomodare Cesare Beccaria, è pensabile solamente in questo modello di società. Non è prevenzione dei delitti ma esacerbazione delle convulsioni emotive, della drammaticità dei bisogni concreti insoddisfabili con salari da fame, con lavori precarissimi, a cui si tenta di sottrarsi affiliandosi alla malavita organizzata, al gangherismo di piccolo cabotaggio.

Il carcere raramente permette il reinserimento pieno nella società; e questo proprio perché è esso stesso l’antitesi di quest’ultima. Ne è l’esatto opposto: al di fuori delle patrie galere c’è l’esistenza tribolata di milioni e milioni di persone che faticano a sbarcare il lunario.

C’è una sofferenza che è il preludio disarmonico e cacofonico all’ingresso nelle case circondariali. C’è un disagio psicologico tra le giovani generazioni che viene sottovalutato, sbirciato di riflesso solo quando i comportamenti si fanno così distonici con le regole comuni da diventare pericolosi. L’eccesso è una via di fuga momentanea, ma a volte è quella che si riesce a intravedere. Solamente quella. E se è davvero così, significa che tutto intorno non c’è nulla se non l’indifferenza e l’apatia.

Per prima quella delle istituzioni. Per prima quella di una comunità che vi si uniforma e che, per questo, non è meno colpevole di chi dall’alto induce alla condanna preventiva, quindi al pregiudizio come norma e regola di un’etica del singolo e del collettivo, di una morale che si piega su sé stessa e che lascia, alla fine, dietro di sé decine e decine di corpi senza vita.

Là, dietro le sbarre. Dove si vede sempre meno, dove la sofferenza è lontana dagli occhi della nostra giornaliera disperazione.

MARCO SFERINI

13 agosto 2023

foto: screenshot

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