Quei pugnali e colpi di pistola che cambiano la vita di un paese

Se fosse stato ancora il primo ministro giapponese, l’assassinio a sangue freddo di Shinzo Abe avrebbe potuto portare il titolo di un futuro romanzo storico di inchiesta del tipo...

Se fosse stato ancora il primo ministro giapponese, l’assassinio a sangue freddo di Shinzo Abe avrebbe potuto portare il titolo di un futuro romanzo storico di inchiesta del tipo “Ore 11: il ministro deve morire“.

Come quelli scritti da Montanelli o Andreotti a suo tempo, per un pubblico vasto, adatti ad una divulgazione della Storia piuttosto civettuola perché mormoratrice di piccoli pettegolezzi e di ipotesi rese più accattivanti dalla prospettiva seducentemente dubbiosa sulle probabilità che potesse essere tutto vero.

In quei romanzetti storici, si trattava di grandi casi di regicidio europei oppure di pugnali che penetravano i cuori di presidenti e capi di governo dalla Francia di fine ‘800 allo Stato della Chiesa tutto dentro le rivoluzioni italiane del ’48.

La narrazione verteva su indagini relazionali tra l’ammazzato e la sua cerchia di conoscenze, i suoi rapporti personali e quindi assumeva i toni – peraltro più che comprensibili, visto che si parlava di morti ammazzati – di un giallo ante litteram. E così valeva anche per l’assassino: pagine e pagine per setacciare la sua vita, giorno per giorno, andando così, con metodo di indagine propriamente francese, a ricostruire la sequela precisa degli eventi che aveva alla fine portato al delitto.

Sovrani e capi di governo caduti per mano del pugnale o per lo sparo di un arma da fuoco se ne contano a decine e decine. Solo per citare i più famosi casi a cavallo tra ‘800 e ‘900, si pensi al gesto dell’anarchico italiano Luigi Lucheni che pugnalò a morte l’imperatrice d’Austra Elisabetta, detta “Sissi“; oppure ad un altro anarchico, il giovane fornaio Sante Caserio che mise fine alla vita del presidente francese Sadi Carnot; ed ancora al più famoso mazziniano Felice Orsini (da cui le celebri “bombe” scagliate anche in suo nome ma, soprattutto, in quel modo) che tentò di assassinare Napoleone III.

Continuiamo con il nazionalista serbo Gavrilo Princip che sparò i colpi di rivoltella contro l’erede al trono della monarchia asburgica a Sarajevo e, infine, ad un altro anarchico, Gaetano Bresci che vendicò i morti fatti da Bava Beccaris mettendo fine alla vita del re Umberto I che era sfuggito già all’attentato messo in pratica da Giovanni Passannante.

Se viaggiassimo oltre i confini europei, scopriremmo che la lista dei tentativi, andati o no a segno, di uccidere tiranni, dittatori, sovrani, capi di Stato e di governo, ministri e altri strateghi del potere, è lunghissima. Ed arriva fino ai giorni nostri proprio con l’ultimo eclatante caso che riguarda Shinzo Abe.

Per noi occidentali fa certamente un rumore differente rispetto alle ripercussioni che ha in Giappone: il trauma politico, sociale e anche morale che, da quanto si legge ed ascolta, si sta diffondendo nell’Impero del Sol Levante, è per noi solo immaginabile ed interpretabile.

La lontananza, in questo caso, è non solo geografica ma anche geopolitica: noi percepiamo la vicinanza con una guerra come quella in Ucraina perché sappiamo che è alle nostre porte, che tocca nettamente i confini del nostro mondo occidentale. Mentre quello che accade in Giappone ci riguarda fino ad un certo punto, nonostante l’economia nipponica, pienamente dentro il contesto della globalizzazione neoliberista, fa sentire tutti i suoi effetti in ogni angolo del mondo.

Non siamo abituati alle cronache giapponesi, così come, è bene sottolinearlo come paragone per rimarcare che non vi sono pregiudizi di sorta, non siamo abituati a sapere che accade nella Confederazione Svizzera o nel Lussemburgo.

Ci sono paesi in cui sembra non accada mai nulla di veramente importante, di così notevole da essere inserito nelle cronache internazionali. Salvo poi venire a scoprire che la loro apparente tranquillità è data da una politica estera che, praticamente, si fonda esclusivamente sui rapporti finanziari ed economici consolidati da lunghissima data. Gli “Stati-cassaforte” non hanno bisogno di grandi eventi, di notizie eclatanti per far parlare di sé. La fiducia dei mercati li accredita costantemente in quanto tali.

Il Giappone non è propriamente definibile come tale, ma è indubbiamente diventato negli ultimi trent’anni un paese molto più autonomo economicamente, capace di svilupparsi nel breve termine proprio in virtù della “Abenomics“, quindi di una interpretazione pratica del capitalismo asiatico e nipponico fatta di preservazione sociale e, al contempo, di incentivi al privatismo spinto e alle aperture nei confronti del capitalismo di nuova generazione a stelle e strisce.

Shinzo Abe sembra voler modernizzare il Giappone attraverso una commistione di preservazione quasi neokeynesiana del potere di acquisto dei salari unitamente ad una monetizzazione del debito, tra lo stupore un poco generale, soprattutto degli analisti economici come Milton Friedman che sostenevano la “teoria quantitativa della moneta“, ossia il legame tra il valore generale del costo delle merci e la quantità di circolazione della moneta in senso strettamente proporzionale.

Per uno, due anni il gioco si regge da solo, ma poi le contraddizioni iniziano a mostrarsi nella loro evidenza e tocca correre ai ripari. Il disagio sociale aumenta, pur mantenendosi molto lontano dalle percentuali dell’inflazione europea e anche americana. Sembra quasi che il Giappone riesca sempre a giocare su due piani uguali e contrari: una politica economica interna molto “isolana” e tendenzialmente conservatrice, mentre esternamente si apre a relazioni che, almeno nel corso dei mandati di governo di Abe, si consolidano soprattutto sul fronte occidentale e atlantico.

Fumio Kishida, leggermente più giovane dell’ex leader, grazie al protagonismo internazionale dato dal conservatorismo liberaldemocratico del primo, proprio in questi tempi di guerra in Ucraina, ha così potuto sedere al tavolo delle discussioni della NATO con tutta la pienezza dei diritti che spettano agli altri partner dell’Alleanza.

Il Giappone, come la Germania, pur essendo una delle potenze sconfitte oltre settant’anni fa alla fine della Seconda guerra mondiale, è diventato prima terra di spartizione e conquista per i vincitori e, in seguito, un fedele comprimario della scena internazionale sia sul piano economico sia su quello militare.

Non è un segreto che uno dei tratti distintivi della politica di Abe, soprattutto negli ultimi tempi, fosse la rimarcatura nazionalista di una necessità di aumentare la spesa militare e di incentivare il riarmo dell’ultimo impero rimasto sulla Terra. Una politica che ha portato avanti e che ha registrato ben poche opposizioni politico-parlamentari e anche popolari. Gli analisti più attenti sostengono che in Giappone, al momento, non esiste una vera alternativa al potere del Partito liberaldemocratico.

E, dopo l’assassinio dell’ex primo ministro, ci si può giurare e scommettere, il risultato del Jimintō sarà ben più ampio e solido di quanto si aspettassero gli osservatori interni e la comunità internazionale. La reazione politica e popolare alla fine di una vera e propria “era Abe” si potrà leggere anche sul versante del consenso emotivo di massa che si riverserà sul partito ora guidato da Fumio Kishida.

E’ probabile che le ragioni del gesto di Tetsuya Yamagami, l’ex militare quarantunenne che ha sparato ad Abe con una pistola rudimentale, autoprodotta in casa e assemblata con del nastro adesivo, rimarranno fumose ed oscure per molto tempo. E tempo ne servirà per capire se l’assassino ha agito per una motivazione del tutto estranea alla tempestività della vicinanza della scadenza elettorale, oppure se invece è stato spinto anche da un risentimento frustrante nei confronti delle politiche dei conservatori giapponesi.

Se potesse essere paragonato ad un evento catastrofico, di quelli che il Paese del Sol Levante è purtroppo abituato a sopportare, verrebbero in mente due similitudini: un grande terremoto, veramente devastante per la società e la politica nipponica, oppure uno tsunami davvero enorme.

Tornando ai nostri paragoni storici di fine ‘800 e inizio ‘900, è assimilabile ad uno di quegli attentati anarchici che hanno cambiato il corso della Storia di uno Stato come l’Italia o del mondo intero come nel caso di Sarajevo. Anche se occorre sempre tenere bene a mente che, sovente, l’ultimo evento fatale non è quello che provoca la detonazione e la deflagrazione che investe interi popoli in mutamenti repentini e lunghi al tempo stesso, ma sono sempre una somma di fattori pregressi che ne sono all’origine. Anche dei gesti più estremi e disperati che si possono compiere.

Perché Gavrilo Princip è stato ampiamente sopravvalutato in quanto a molla scatenante l’intero primo conflitto mondiale. Senza di lui, del tutto probabilmente, si sarebbe dovuto cercare un altro pretesto per ridisegnare lo scacchiere delle potenze europee di allora. Quei colpi di pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando contribuirono ad accelerare i tempi.

Ed anche la morte di Shinzo Abe, fatte tutte le debite distinzioni del caso, sembra rientrare in uno schema simile, magari non avendo nulla a che fare con le complessità di una riscrittura degli scenari internazionali e tanto meno con le ragioni politiche interne del Giappone e i rapporti di forza che le governano. Ma, secondo la legge della causa e dell’effetto e anche secondo quella dell'”effetto farfalla“, nulla resta privo di conseguenze. Soprattutto, con grande ironia della sorte, prescindendo proprio dalla volontà di chi ha vibrato una pugnalata o esploso dei colpi di rivoltella…

L’eterogenesi dei fini, in ultima analisi, regna sovrana…

MARCO SFERINI

9 luglio 2022

Foto di Matt Hatchett

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