«Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, una speranza, che è fede, è coraggio. Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione. E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto». Così Benito Mussolini, in un discorso a Napoli dell’ottobre del 1922, pochi giorni prima della marcia su Roma.

A ricostruire la traiettoria lessicale e il filo ideologico, spesso intessuto di gusto per l’espressione drammaturgica, interviene ora il volume curato da Fabio Frosini La costruzione dello Stato nuovo (Marsilio, pp. 525, euro 25). Si tratta di una raccolta di scritti e discorsi di Mussolini tra il 1921 e il 1932, selezionati, introdotti ed argomentati in chiave analitica sulla base dell’identificazione dei tratti distintivi del discorso fascista.

Si potrebbe eccepire sulla necessità di un’antologia di quello che rimane del profluvio di parole, scritte e dette nel corso della sua esistenza, dal «duce del fascismo», se non fosse per il fatto che nella maggioranza dei casi la curatela dei testi che ci sono pervenuti è rimasta a lungo nelle mani dei suoi apologeti.

I quali, per molto tempo, hanno dominato il campo della produzione editoriale in materia (si pensi a Edoardo e Duilio Susmel), contando anche sulla scarsa considerazione che l’analisi del «parlare fascista» ha raccolto almeno fino agli anni Ottanta. Secondo un approccio piuttosto diffuso, alla fumosità e alle incoerenze ideologiche del mussolinismo, indici del suo opportunismo e della mancanza di una chiara collocazione politica, si sarebbe accompagnato un linguaggio tanto roboante quanto inconsistente, permeato di mero tatticismo.

Un tale criterio, estremamente liquidatorio, è stato tuttavia successivamente sostituito da una diversa considerazione della comunicazione pubblica in Italia durante il Ventennio. A scanso di equivoci va sottolineato che il testo di Frosini, docente di Storia della filosofia e delle dottrine politiche all’Ateneo di Urbino, non è un’indagine linguistica bensì una riflessione sulla rilevanza dei costrutti comunicativi, fortemente mitopoietici, nell’auto-definizione del fascismo come soggetto politico di natura non solo di frattura bensì laboratoriale. Ed è questo un anello fondamentale che invece spesso difetta nella lettura di quel passato.

Variamente compreso ed interpretato nell’arco di due estremi in continua opposizione, oscillando dalla denuncia di una sua inguaribile cialtronaggine all’adesione acritica dell’immagine che dava di sé, il fascismo invece perdura come calco profondo del nostro Paese poiché ha dato un lessico significante – e quindi una legittimazione – all’azione di «freno allo sviluppo sindacale e politico dei ceti popolari, non solo mediante la repressione e un capillare sistema di controllo, ma anche con l’accoglimento di rivendicazioni avanzate da tali ceti».

Per l’appunto, il tema è quello di come la combinazione tra «classe», «nazione», «popolo» e «Stato» abbia prodotto una fidelizzazione destinata a durare, come tracciato a tratti quasi antropologico, anche dopo la rovina bellica e la svolta della guerra di Liberazione. Del pari a come un circuito di potere, esercitato con il ricorso sistematico alla violenza legalizzata, sia riuscito a tessere la trama di una coesione sociale basata sull’anestetizzazione dei conflitti sociali. I termini della questione attraverso i quali declinare la riflessione sono ricordati dallo stesso Frosini nelle pagine introduttive.

Il regime fascista fu un «sistema policentrico» (ovvero una sorta di poliarchia non pluralista) dove la coesistenza competitiva di centri di interessi concorrenti era mantenuta entro i limiti della negoziazione svolta dalla figura stessa di Mussolini, garante del patto di reciprocità che aveva coniugato intorno alla sua persona figure e gruppi di potere altrimenti incapaci di trovare una sintesi autonoma. Non di meno, la consapevolezza che il fascismo dovesse essere soprattutto un esercizio pressoché quotidiano di auto-raffigurazione, a fronte dell’estremo eclettismo ideologico non meno che della necessità di occupare stabilmente la sfera pubblica con immagini galvanizzanti, incentivò la collaborazione intellettuale.

Se ci fu una «cultura del fascismo» (l’interrogativo al riguardo è vecchio come il regime medesimo) questa si manifestò attraverso il coinvolgimento – e la compromissione – dell’intellettualità nella definizione dei caratteri aleatori dello «Stato nuovo». Una sorta di perenne ricerca della pietra filosofale, che diede corpo a «uno sviluppo ipertrofico del simbolismo e dei rituali politici, funzionali a istituire un legame diretto e verticale della massa con i capi – e in particolare il duce – ma anche a unificare orizzontalmente una base sociale variegata».

All’interno di queste dinamiche di fondo, assai più complesse di quanto i giudizi sbrigativi di un tempo intendessero riconoscere, si ramificarono quindi le rielaborazioni dei rapporti tra partito, istituzioni pubbliche, collettività civile, produzione ideologica e omogeneizzazione culturale. Il tema dello «Stato nuovo», altrimenti in sé fittizio e artefatto, si colloca, come insieme di suggestioni illusorie e intuizioni anzitempo compromesse, dentro un tale reticolo, del quale i discorsi e la scrittura mussoliniana ne sono integrale testimonianza.

Le diverse pagine ci restituiscono una sorta di auto-ipnosi, sospesa tra elefantiasi dei proponimenti, inganno più o meno consapevole (la linea di distinzione tra fantasia e realtà nel discorrere mitografico fascista è perennemente soppressa) e desiderio di una fusione totale dei corpi sociali e civili in un’unica istanza (lo «Stato»), in linea con l’idea antisocialista e illiberale della modernità intesa come omogeneizzazione e uniformazione totalitaria.

Il rifiuto del pluralismo, presentato altrimenti come il contenitore di spinte non solo anarchiche e centrifughe ma distruttive, è allora il vero suggello della falsa razionalizzazione alla quale il regime dichiara di ispirarsi. Peraltro, l’intenzione fascista si affermò e si radicò in un tessuto civile, quello italiano (ma anche europeo, in immediato riflesso) ed in un tempo, quello della modernità postbellica, dove l’urgente ricerca di indirizzi da fornire alla politica di massa, ovvero ai suoi processi di nazionalizzazione, prevaleva su tutte le formule preesistenti.

La stanchezza e gli anacronismi delle società liberali si accompagnavano all’affermazione di protagonismi da parte di gruppi sociali che si erano evidenziati proprio grazie alla mobilitazione nelle trincee. Di questo Mussolini ne era pienamente consapevole, come traspare a più riprese dalle sue stesse parole.

La guerra, negli interventi pubblici dell’epoca, diveniva così quell’irripetibile tornante che avrebbe rotto una volta per sempre gli argini preesistenti, offrendo opportunità, fino ad allora altrimenti inesistenti, alla genesi di una vera e propria unificazione del Paese. In questo processo idealizzato – che tuttavia nei fatti concreti si dava solo nelle fantasie dell’interventismo nazionalista – il fascismo intendeva inserirsi a pieno titolo, candidandosi a guidarlo in quanto nuova forma della politica collettiva. La quale, cancellando la rappresentanza democratica, avrebbe invece enfatizzato la partecipazione passiva e l’adesione fideistica.

Al di là dei passaggi a tratti problematizzanti, altre volte sospesi tra equilibrismi di circostanza, oppure informati a iperboli immaginifiche, la retorica del dittatore ci restituisce il senso del processo di omologazione totalitaria praticato negli anni Venti, attraverso la manomissione del linguaggio di senso comune, la contaminazione e l’inquinamento dei significati politici, la dismissione di qualsiasi idea di società che non fosse organicistica.

Rimane il riscontro che il discorso mussoliniano si presenta ancora oggi come la lingua capovolta del servo che si crede padrone. La guerra successiva si sarebbe incaricata di ricordarlo ai diretti interessati.

CLAUDIO VERCELLI

da il manifesto.it

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