“Morte delle ideologie” e degrado socio-politico italiano

Sembra che in Italia non possa esistere un dibattito politico e, ancora di più, prese di posizione in tal senso che non possano esimersi dal prescindere da una collocazione...

Sembra che in Italia non possa esistere un dibattito politico e, ancora di più, prese di posizione in tal senso che non possano esimersi dal prescindere da una collocazione sempre e soltanto “maggioritaria“. Si tratta di una concezione ormai quasi atavica, sviluppata in decenni di alternanze che hanno reso il Paese schiavo della logica devastante del “meno peggio“, dando vita a coalizioni che hanno unito veramente dall’alfa all’omega, dalla a alla zeta e che, proprio per questo ecumenismo laico dall’eterno sapore di “salvezza nazionale“, hanno finito col consumare le precise differenze ideologico-ideali di un tempo.

Oggi, se si parla di “ideologia“, pare che si bestemmi il più certo degli dei esistenti grazie alla fantasia degli esseri umani: eppure le idee erano contenute in queste grandi visioni della società, molto diverse fra loro, ma che avevano come scopo anche quello di elevare la politica stessa a luogo comunitario, dove si incontravano sensazioni, sentimenti, culture, propensioni e critiche; dove prendeva corpo la tensione emotiva che forse si illudeva – almeno nelle anime più candide, pure e degne di rappresentare davvero “l’arte della politica” – di partecipare attivamente, nel solco pieno tracciato dalla Costituzione, alla vita del Paese.

Troppe volte ci si riduce ad una ingenuità indotta, una sorta di salvacondotto personale in cui ricerchiamo rifugio pre estraniarci dalla ripetitiva banalità di azioni che fanno precipitare ogni volontà tesa a migliorare le condizioni materiali della popolazione tramite la fiducia piena nel regime democratico, nella repubblica parlamentare. Una ingenuità che si traduce nella sorpresa eclatante davanti ai tanti tradimenti che vengono perpetrati contro il bene comune e contro la sua difesa nelle opportune sedi istituzionali.

Sorprendersi dovrebbe essere lecito, ma finisce con il divenire una assuefazione pericolosa che, progressivamente e senza riuscire a darsi un termine, aumenta fino ad offuscare i princìpi originari per cui ogni cittadino dovrebbe occuparsi della vita quotidiana tanto sul piano sociale ed economico quanto su quello politico.

La corruzione, la sete di potere, l’intreccio tra quest’ultima e la voglia di emergere, di arricchirsi a scapito proprio del benessere comune, sono elementi costituenti di una immoralità che si sostituisce alle ideologie costruttive e le utilizza, in un primo tempo, per entrare nei giochi di palazzo e fare della complessa macchina dello Stato di diritto un insieme di servitori e cortigiani al proprio servizio; mentre in un secondo tempo, venuta meno l’indipendenza dei poteri e la loro rispettiva equipollenza, si può dichiarare morto il campo delle ideologie e sorta l’era dalla politica che si fonda su valori universali, quindi – in senso assoluto – sul niente.

Quando esistevano grandi correnti di pensiero, eredità della cultura ottocentesca e dei secoli passati, come il repubblicanesimo, il liberalismo, il socialismo, il comunismo, la socialdemocrazia e l’eccezione del connubio tra fede e politica nel popolarismo di don Sturzo prima e nel cristianesimo democratico di De Gasperi poi, la penetrazione degli interessi economici non era esclusa dal gioco della vita politica di palazzo. Tutt’altro. Ma si poteva quasi toccare con mano una sorta di formale rispetto intangibile tra valori e princìpi e praticità conseguente dei medesimi tramite i rappresentanti eletti in Parlamento e chi sedeva al governo del Paese.

Anche l’utilizzo privato della “cosa pubblica” era fatto con un certo “stile“: basti pensare allo scandalo della Banca Romana o ai tanti e veri propri furti che esponenti del periodo liberale a cavallo tra la fine dell’800 e la nascita del fascismo… Più grossolani furono i gerarchi del regime mussoliniano che, in breve tempo, dopo la marcia su Roma, divennero ricchissimi, mentre il dittatore, forte del suo potere, poteva permettersi di abitare a Villa Torlonia per un affitto simbolico di 1 lira all’anno.

Terminata la tragedia del ventennio fascista e della guerra, capovolta l’immoralità autoritaria dello Stato totalitario in una Repubblica democratica con al centro l’istituzione parlamentare, approvata una Costituzione che istituiva un compromesso tra rivendicazioni egualitarie sociali e proprietà privata dei mezzi di produzione, privilegiando comunque il bene collettivo rispetto al privilegio del singolo, è parso a tanti italiani che la democrazia portasse con sé una ancestrale conduzione delle ideologie nella quotidianità di un popolo privato della libertà di pensiero per troppo tempo.

La capacità di valutare autonomamente quale fosse la propria idea di Italia, di comunità, di ruolo dell’uomo e del cittadino nel contesto ampio della società e di un’Europa che si andava lentamente costruendo – seppure su basi esclusivamente economiche (sapendo bene che da queste dipendevano eventuali riprese di conflitti tra Stati) – fu una grossa novità che iniziò a materializzarsi con l’estensione del voto alle donne a partire dall’elezione dell’Assemblea Costituente e dal voto per la scelta della forma dello Stato.

L’uguaglianza civile progrediva di pari passo con una rinascita delle rivendicazioni sociali e le ideologie si sostanziavano, mentre si riscopriva la condivisione dei valori che ridava vita alle organizzazioni sindacali, alla pluralità politica e allo sviluppo culturale soprattutto tra le categorie più fragili e proletarie della popolazione immiserita dalla devastazione morale e materiale della guerra.

Per oltre mezzo secolo la Repubblica Italiana è stata, con tutte le storture e i difetti propri del sistema economico in cui è stata costretta a vivere, un compromesso virtuoso ispirato da una Costituzione progressista che ha in sé gli elementi per migliorarsi e per essere un giorno il primordio di un passo ulteriore verso una giustizia sociale concreta. Negli ultimi trent’anni, con l’avvicendarsi del liberismo, tecnica immanente di un capitalismo in piena espansione globale e – allo stesso tempo – in grave crisi mondiale, non tanto gli Stati-nazione sono stati oggetto di un attacco da parte dell’economia di mercato, quanto la riorganizzazione sociale, operaia, del moderno universo degli sfruttati e dei precari a tutti i livelli.

L’attacco al mondo del lavoro avviene sotto forma di incremento delle attività produttive con tecnologie sempre più innovative che, in teoria, dovrebbero anche assorbire un notevole flusso di forza-lavoro, pur lasciando quasi intatto l’esercito di riserva dei disoccupati. Ma, invece, uniformano la percezione della realtà alle esigenze del mercato, e lo fanno così abilmente da creare nuove guerre tra poveri, mostrando nel migrante il nemico per l’altro migrante e nell’indigente “straniero” il nemico per quello autoctono.

La politica italiana dell’oggi non è tramite dei valori sociali scritti nella Costituzione: è sempre più compromissione con le perturbabilità del capitalismo, incapace di tracciare una rotta segnata da una ideologia. Si barcamena tra l’incolore incultura antipolitica dei Cinquestelle e la rimescolanza di carte del PD, alla ricerca di una identità perduta tra veltronismo della prima ora e renzismo della penultima ora. Il resto è contorno a questa pietanza indigesta che, nella illogicità del “meno peggio“, almeno non è letale come quella sovranista.

Il piatto piange. La sinistra pure e i lavoratori, immersi nel pauperismo pandemico, non hanno al momento nessuna speranza di poter vedere le loro rivendicazioni essere prese in carico da un sindacato forte, da un partito comunista altrettanto deciso e risoluto. La nottata deve proprio ancora passare. Ma proprio tutta…

MARCO SFERINI

22 gennaio 2021

Foto di a_roesler da Pixabay

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