L’ultima disperata trasformazione del M5S

Quando diventi l’esatto opposto per cui sostenevi di essere nato, si può affermare – senza timore di smentita alcuna – che quanto meno il progetto originario è fallito o,...

Quando diventi l’esatto opposto per cui sostenevi di essere nato, si può affermare – senza timore di smentita alcuna – che quanto meno il progetto originario è fallito o, nella migliore delle ipotesi-analisi, si è arenato e ha subìto una battuta d’arresto che assume sempre più i connotati di una crisi irreversibile.

E’ quello che è accaduto in questi anni al Movimento 5 Stelle: il salto di qualità da forza popolare, di massa, di opposizione a forza popolare, di massa ma pure di governo, non c’è stato. E caso mai fosse anche riscontrabile, il prezzo pagato finirebbe per pesare così tanto sulla bilancia della passato prossimo e del presente da determinare una davvero magra convenienza nello spirito evolutivo di quello che avrebbe dovuto essere un incipit rivoluzionario per l’intero Paese.

La mutazione ultima, quella emersa dagli Stati generali presieduti da Vito Crimi, è l’accettazione di una forma-partito così tanto osteggiata, dileggiata e vilipesa fin dai primordi dei “Vaffanculo day“, quando si cannonnegiava la politica italiana con invettive contro la “casta“, contro tutti i partiti e si canticchiavano i sacri pilastri del Movimento con la emme maiuscola: «Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta! Ognuno vale uno!».

Una trasformazione imposta da un ormai assimilato conformismo istituzionale, un adeguamento alla realpolitik dei duri tempi di governo: dall’alleanza con la Lega di Salvini fino a quella con il PD di Zingaretti, Italia Viva di Renzi e LeU di Speranza. La prima volta è andata malissimo e il M5S ha finito per avere una maggioranza di deputati e senatori mortificata da una minoranza di consensi col passaggio elettorale europeo e dalla crescente onda sovranista che ha rischiato di travolgere l’Italia. La seconda volta è andata meglio, ma tutta una serie di giustificazionismi si sono dovuti addurre per assemblare l’asse di equilibrio del nuovo esecutivo.

Se con la Lega era stato sufficiente affermare che, in fondo, i sacri princìpi fondativi, meta-ideali del Movimento non erano stati intaccati, nonostante si rompesse il dogma dell’isolazionismo pentastellato e ci si alleasse – per di più – con un partito storico, di estrema destra e bene addentro ad ogni sistema politico-istituzionale nei differenti livelli amministrativi, con l’arcidiavolo PD i grillini mettono in campo ragioni che attingono al sempreverde “senso di responsabilità“.

Avrebbe potuto mai, un Movimento rivoluzionario, incorruttibile e imperturbabile nei suoi propositi, lasciare che l’Italia cadesse nelle mani del centrodestra, con cui per metà il M5S aveva governato per un anno, producendo capolavori legislativi come i “decreti sicurezza“, sostenendo le politiche anti-immigrazione della Lega e adeguandosi ai peggiori schemi economici dettati da Bruxelles e da Francoforte?

Certo che no. Lo sforzo di assumersi tutto il peso di un sano pragmatismo, mantenendo formalmente intatte tutte quante le ragioni fondative del Movimento, è stato interpretato e diffuso come l’ennesimo sacrificio da parte di una forza politica conscia delle mutazioni in atto e, per questo, responsabile e non meramente legata ad un idealismo privo di certezze, vagheggiante nella’aere, sempre più relegato nell’angolo comodo dell’utopia.

La volpe e l’uva è favola antica, ma torna sempre a fagiolo quando tocca descrivere la pretestuosità di gesti tanto singoli quanto collettivi. E pure politici.

Per il Movimento si tratta di un’ultima ancora di salvezza in un porto un po’ stagnante della politica italiana, dove i confini elettorali si spostano di pochi metri: è una stagione fatta di mille incertezze, dominata dal coronavirus. Le trincee di maggioranza ed opposizione marcano la linea di un fronte dove ci si scruta, pronti ad approfittare mediaticamente di qualche inciampo reciproco, ma il tutto si riduce a scaramucce di poco conto.

Da un lato il governo deve mantenere fermo il proposito di rappresentare pienamente tutte le ansie della nazione nel periodo di pandemia; dall’alto l’opposizione non può permettersi di apparire così “anti-nazionale” dall’intralciare il lavoro della maggioranza e dell’esecutivo.

I Cinquestelle si ritrovano, dunque, privi dell’humus originario, quello su cui crebbe il movimento popolare di rivolta contro il vecchio berlusconismo e la stagione renziana dei democratici: sono orfani dei padri fondatori e rimangono nella contraddizione evidente tra rappresentanza in Parlamento e numeri nelle urne. Il sovradimensionamento nella Camere per loro equivale ad una sottostima ampia delle destre estreme: ed in questo balletto si riverberano le sembianze di una legge elettorale che tutto sommato non disprezzi troppo il maggioritario e che faccia rimanere il Paese in balia dell’eterna lotta tra vera destra e finta sinistra.

Alla domanda se si avviano a divenire, per l’appunto, un partito “intermedio“, quindi di centro, non è sufficiente la risposta di Di Maio che riafferma l’a-ideologismo del Movimento: il punto non è il sincretismo di posizioni politiche (ideali, al massimo…) che può permettere di collocare i pentastellati tanto sul versante destro quanto su quello sinistro del Parlamento. Non siamo in presenza di una “Palude” italiana, di un settore così moderato da dividere gli estremi: PD e Forza Italia gareggiano in quanto a moderatismo e a ricostruzione di un settore politico rappresentativo delle istanze del ceto medio.

Quindi, per il Movimento si tratta di collocarsi come nuovo “partito” in un ambito di sviluppo tanto politico quanto ideal-ideologico, checché ne dicano Di Maio, Crimi e altri che vorrebbero veleggiare ancora sul mare magnum dell’indistinzione, dell’acromaticismo, dell’andar bene un po’ per tutte le stagioni e per tutti i governi.

In realtà, i Cinquestelle scelgono sempre senza scegliere apertamente: lo fanno prima agendo e poi spiegando, parafrasando tempi e modi delle scelte, affermando giustificazioni che suonano sempre più come tante “excusatio non petita“, visto che nessuno li accusa di doppiogioco politico; semmai di mutaformismo, di capacità di adattamento costante che non è però così significativo elemento da far considerare un aumento dei consensi e un ritorno – più o meno – alle origini.

Tutt’altro. Fino a quando il Movimento era in forte crescita ed espansione su ogni livello istituzionale, valeva la regola della purezza politica, dell’isolazionismo, dell’anti-alleantismo. La trasformazione del M5S inizia quando deve scendere a miti consigli con la realtà delle amministrazioni di grandi metropoli (Roma, Torino, tra le altre) e, soprattutto, quando si trova catapultato nei papabili per la formazione di un nuovo governo.

Il compromesso diventa rapidamente compromissione: gli angoli vengono smussati e nascono le correnti. Governisti, duri e puri ed in mezzo quelli che mediano, quelli che “stanno al centro“. Perché c’è sempre una destra, c’è sempre una sinistra e c’è sempre un centro in cui rifugiarsi per contare ora e contare anche dopo. Galleggiare, sopravvivere. Per attendere venti favorevoli che, diceva Seneca, sono ben poco utili se non si ha chiara la rotta da seguire.

MARCO SFERINI

18 novembre 2020

foto: screenshot

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