L’impossibile egemonia a sinistra per PD e Cinquestelle

Al centro delle diatribe di quello che dovrebbe essere un fututo polo o fronte progressista non dovrebbe esserci la competizione numerico-percentualistica di tipo prettamente elettoralistico. Il dramma è che,...
Elly Schlein e Giuseppe Conte

Al centro delle diatribe di quello che dovrebbe essere un fututo polo o fronte progressista non dovrebbe esserci la competizione numerico-percentualistica di tipo prettamente elettoralistico. Il dramma è che, europee o non europee del prossimo giugno, ciò che sta avvenendo tra PD e Cinquestelle, tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, molto probabilmente accadrebbe ugualmente perché il tema predominante non è la ricomposizione di una egemonia socio-culturale della sinistra in Italia, ma un micro-tatticismo che è davvero squalificante e deprimente.

Il numero di seggi in Parlamento è sostanza, certo. Nessuno meglio di chi sta nella sinistra di alternativa, costretta all’esilio dalle Camere tanto dalle proprie evidenti lacune ormai storiche, quanto da una specialissima serie di furti elettorali ad opera di regole create ad acta per privilegiare un bipolarismo mai veramente scomparso, anche in presenza della presunta “rivoluzione grillina“, conosce questa amara e necessaria verità.

Ma se la sinistra, tanto moderata quanto anticapitalista, vuole scongiurare al Paese anni e anni di melonismo, non può dirsi sufficiente un confronto che si misuri esclusivamente su un rapporto di prossimità tattica. Manca la strategia, manca la visione di lungo corso, manca quindi un piano di ampio spettro in cui si svolgano tutte le critiche che questo sistema moderno di economia omicidia, zoocida e geocida merita per poter dare seguito ad un programma essenziale e primario di opposizione antiliberista.

Tra i tanti problemi che la politica italiana deve affrontare, quello della irrintracciabilità di una critica sociale, riferita a princìpi di vera giustizia sociale, quindi antitetici alle piattaforme rivendicative di Confindustria e del mondo imprenditoriale nel suo complesso, è uno dei più pressanti. Da quanto tempo sinistra moderata e sinistra radicale non si parlano o, per lo meno, non si confrontano? Diciamo, almeno da quando una ha scelto di fare tutto da sola e di mettere all’angolo l’altra.

Un parvenuismo politico-culturale ha contraddistinto il progressismo di fine Novecento che, con il crollo del socialismo reale e la fine del bipolarismo globale, ha pensato di trovare nella ricetta socialdemocratico-liberale il tratto distintivo di un compromesso eccellente tra capitale e lavoro, mettendo da parte ogni rivendicazione di classe, ogni tentativo di strutturazione dello Stato-sociale, ogni riferimento al pubblico come stella polare delle politiche di governo.

Per lo meno di quei governi che, chi ha pensato di archiviare la grande esperienza politica del PCI in Italia, riteneva di riuscire a creare mettendo in scacco la precedente torsione moderata (e corrotta) della sinistra socialista, rappresentata dalla stagione del craxismo. Se la rifondazione del comunismo italiano non ha sortito gli effetti sperati, spiace constatare che nemmeno il modernismo progressista dei nuovi socialdemocratici e liberali di sinistra ha conquistato quegli spazi in termini di diritti dei lavoratori che probabilmente qualcuno, in assoluta buona fede, pensava di riuscire ad acquisire.

La complessità degli avvicendamenti politici e sociali negli ultimi trent’anni, un po’ dopo la rivoluzione conservatrice berlusconiana (tanto innovativa per il padronato quanto regressiva per lavoratrici e lavoratori, studenti e pensionati), è stata così veloce nella trasformazione della politica in tecnicismo assistito dai grandi gruppi industriali e dalla supervisione di Bruxelles e Francoforte, da non permettere, nemmeno dopo un po’ di tempo, di avere una chiara visione di insieme per poter discernere i confini della destra da un lato, quelli del centro e quelli della sinistra.

Le tentazioni goverrniste e liberiste hanno, entro lo schema della leaderizzazione della forma partito e dei movimenti che si sono proposti come alternativa alla “casta“, stravolto qualunque identità anche minimale tanto da fare del PD, col renzismo, un partito disomogeneo, altro da quel soggetto di massa tipico del Novecento che, soltanto oggi, con la svolta (ancora tutta da dimostrare alla prova dei fatti) di Elly Schlein verso una piattaforma più sociale e pubblica, pare essere tornato a ricontemplare.

La prudenza è d’obbligo, perché, se da un lato vi sono segnali di recupero di una volontà di rappresentare i ceti sociali meno abbienti, a partire da quello medio che se la passa sempre peggio ma che, nonostante tutto, sopravvive alla crisi economico-ambientale in pieno svolgimento meglio dei quasi sei milioni di italiani in stato di povertà assoluta, dall’altro lato rimane fermamente punto di riferimento tutto ciò che guarda all’Occidente e all’Europa della BCE come modello di cultura economica.

Si percepisce un tentativo di recupero dei passi dal liberismo al liberalismo, con qualche tratteggio di progressismo moderato, ma siamo comunque sempre nel piano inclinato di una insufficiente disposizione a trattare gli interessi della sola classe lavoratrice e del mondo della precarietà e della disoccupazione, di un disagio sociale ampiamente diffuso, come esclusivi del proprio agire politico, tenendo sempre in conto il mercato come regolatore più generale dell’esistenza di ciascuno e di tutti.

Non va meglio al Movimento 5 Stelle in quanto a tentativi un po’ carnascialeschi di mostrarsi come rigeneratore di una valorialità complessiva dei bisogni sociali in chiave innovatrice e quasi futuristicamente concepita nell’alveo della modernità tecnologica, di quel rapporto tra politica e rete, tra rappresentanza reale e virtuale che era stata oniricamente interpretata da Casaleggio e Grillo nella primissima fase di un rousseauismo allucinato, precursore di un superamento della democrazia parlamentare così come l’abbiamo conosciuta fino a ieri e, almeno ancora, fino ad oggi.

La duttilità dei pentastellati poteva sembrare una virtù nuova, scardinatrice dei vecchi schematismi incrostati, delle ossidazioni di un potere che si era trasformato per rimanere un po’ sempre uguale a sé stesso nella conferma delle posizioni sull’asse tra impresa e politica. In questa cornice, il berlusconismo ventennale, tra alti e bassi, aveva rappresentato la ridefinizione delle posizioni di centro e di destra, assimilando gran parte degli orfani di Craxi, ma non aveva dato al Paese quella innovazione socio-economico-culturale di cui avrebbe avuto bisogno.

Gli eredi malfermi del comunismo italiano, dopo aver tradito il rigore politico del “paese nel paese“, non erano nemmeno stati in grado di reggere l’urto dell’attacco confindustriale portato avanti dalla più facile delle soluzioni: mettere a capo del Paese uno di loro, per quanto anomalo e poco cristallino fosse l’imprenditore milanese che aveva creato un impero e che avrebbe, di lì a poco, consolidato sé stesso e le sue aziende, usando il pubblico per interessi privati, mettendosi al riparo da debiti e da accuse piuttosto ingombranti.

Il Movimento 5 Stelle, che sorge dalle macerie della seconda fase di fallimento della politica italiana post-novecentesca, dopo il crollo del Pentapartito e dopo la prima stagione dell’affermazione di un centrodestra ancora diviso e balbettante, nemmeno oggi vuole, intende scrollarsi d’addosso l’attributo di “populista” che, a ben vedere, serve anche a Giuseppe Conte per non rompere l’equilibrio tra voti di sinistra e voti di destra che tiene il suo movimento al terzo posto nei sondaggi.

E’ probabile che corrisponda al vero il fatto che vuole quei voti preda della destra da un lato, dell’astensionismo crescente dall’altro, se il M5S verticalizzasse in basso, precipitando in una crisi che intravede ogni volta che si presenta alle elezioni amministrative locali. Ma è altresì vero che, di contro, la presenza dei Cinquestelle è oggi anche uno degli impedimenti maggiori alla formazione di un nuovo polo progressista che possa dialogare anche più a sinistra e offrire al Paese una alternativa alle destre.

Conte, alla ormai famosa e fatidica domanda di Fabio Fazio su Biden e Trump, su chi sceglierebbe se si trovasse a votare negli Stati Uniti, ha risposto evasivamente, puntualizzando sull’assalto a Capitol Hill su rintuzzamento del conduttore. In quella chiara non volontà di scegliere il meno peggio (che quindi peggio comunque rimane, rispetto a quello che la politica americana meriterebbe in chiave ovviamente sociale, civile e internazionale) c’è tutta la ragion d’essere del Movimento 5 Stelle post-grillino.

Che non è, appunto, più sussunta dalla tensione definita in chiave “antipolitica” e contro-istituzionale di oltre un decennio fa, ma che mostra tutti i segni di una resilienza camaleontica, capace di adattamento e trasformazione opportunistica a seconda delle stagioni che si innestano nella dimensione tanto nazionale quanto europea e globale in cui ci veniamo a trovare.

Il minimo sindacale per poter stare in un campo progressista è essere ancestralmente anti-trumpiani. Il magnate americano, capo dei Make America Great Again è la quintessenza di una destra che ha snaturato persino il conservatorismo del Grand Old Party. Difficile oggi distinguere tra Trump, Bolsonaro, Milei, Orbàn, Salvini e Meloni. Paradossalmente, fra tutti questi, la figura della meno smargiassa la fa l’istituzionalizzata Presidente del Consiglio italiana, obbligata a vestire l’etichetta di palazzo in mezzo ad un parterre di corifei imbarazzanti.

Il fatto che Giuseppe Conte non abbia detto una parola chiara, netta sull’anti-trumpismo fa un po’ il paio, uguale e contrario, con la difficoltà endogena dei fratelli d’Italia che non riescono a dirsi antifascisti. I piani sono differenti, ma mutatis mutandis, il prodotto alla fine è lo stesso: dire che non si è qualcosa implica l’essere qualcos’altro. Quindi meglio non dire per sembrare di essere sia qualcosa sia, pure, qualcos’altro. Un equilibrismo tatticista che paga fino ad un certo punto.

Visto il desolante panorama socio-politico-culturale del nostro Paese, qualcuno potrà affermare con ragione che, nonostante tutto, questa tendenza ruffianissima dell’oscillazione tra sembrare ed essere, in fondo paga eccome. I risultati si vedono: le destre governano, i Cinquestelle tengono in scacco mezza opposizione parlamentare sul fare o non fare un nuovo fronte progressista.

Ecco, tra l’altro, una delle ragioni di una palese, plateale, oggettiva inefficacia dell’azione delle minoranze che trovano delle convergenze nel contrastare gli atti del governo e della maggioranza ma che, poi, oltre il voto nelle auel parlamentari, non riescono a solidificare un patto minimo su grandi temi come il lavoro, l’ambiente, la pace, il sociale, il pubblico, la scuola, la sanità…

Manca una critica non solo ragionata della struttura economica in cui siamo immersi fino ed oltre il collo; manca ancora di più una volontà che superi un settarismo di convenienza che non è soltanto proprio delle piccole formazioni a sinistra, ma anche preda dei sacri furori di chi spera di campare di rendita o di inventarsi nuove simmetrie convergenti fino ad un certo punto e non sempre mettendo avanti a tutto l’interesse popolare e quello dell’intera nazione.

Quella che potrebbe essere una sfida per l’egemonia nel campo progressista è, a guardare oculatamente, un teatrino che dà uno spettacolicchio di quart’ordine. Così non si costruiscono alternative credibili: né sociali e né politiche. Né per l’oggi immediato né per il domani prossimo. Così facendo, Giorgia Meloni può solo sperare che non si aprano troppe contraddizioni nella sua compagine di maggioranza, perché di altre serie dialettiche minacce al suo operato non se ne vedono.

Per impotenza della sinistra di alternativa, per mancanza di azzardo e di volontà da parte di quella moderata. Comunque la situazione è seria e fa ancora in tempo a trasformarsi da tragedia in farsa, andata e ritorno sul binario dell’ipocrisia politica tutta italiana.

MARCO SFERINI

31 gennaio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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