Ilva, fine del modello «produzione a tutti i costi»

Acciaio. L’Ilva-Italsider-Ilva-Arcelor Mittal di Taranto, nata quasi sessant’anni fa come fabbrica all’avanguardia, con le migliori tecnologie allora disponibili, ha continuato a usare lo stesso ciclo produttivo fino ad oggi, incurante delle trasformazioni avvenute e ampiamente in uso nel resto del mondo

Un epilogo annunciato, quello dell’Ilva-Italsider-Ilva-Arcelor Mittal, simbolo della fine di una storia globale, del modello della produzione industriale a tutti i costi: a costo della vita, a costo dell’ambiente.

Una storia che ha segnato profondamente le «città del ferro»: Genova, Bagnoli, Piombino, Taranto.

Ancora oggi, come ciclicamente è accaduto negli ultimi sette anni, da quando la magistratura tarantina impose il sequestro degli impianti dell’acciaieria, si parla di Taranto in termini di città “ferita” (parola oggi del presidente del consiglio Conte, ieri del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola); ancora sentiamo ripetere «dobbiamo trovare una soluzione» (ma cosa stiamo aspettando ancora per trovarla davvero una soluzione?); ancora passano sotto gli occhi immagini di fumi e di morte, ancora ci viene riproposta una storia in cui i rischi per la vita e per l’ambiente non sarebbero stati presi in considerazione, né da chi ha costruito prima e gestito poi l’acciaieria, né dai cittadini. Affermazioni bipartisan, tanto della politica quanto del sindacato.

Nel 1964, ancora prima del completamento della prima fase della costruzione dello stabilimento, in un convegno di medicina sociale, l’ufficiale sanitario di Taranto, Alessandro Leccese, denunciò il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro ancora, che metteva a rischio l’ambiente e la salute dei cittadini. Gliene conseguirono vessazioni e denunce da cui dovette difendersi in tribunale e un lungo, forzato, silenzio.

Le cronache dei quotidiani e periodici locali sono piene di denunce contro questo sviluppo industriale distorto e di preoccupazioni per l’ambiente.

I pescatori ebbero paura per il loro mare da subito: nel 1962 protestarono per i danni irreversibili che le idrovore dell’Ilva avrebbero sicuramente causato alla pesca e alla mitilicoltura. Nel 1972 la loro rivolta fu molto seria: bloccarono per un’intera giornata l’isola della città vecchia con barricate di barche. Nel 1981 ci fu una nuova protesta contro il colosso d’acciaio che ammazzava il mare, ma l’unica cosa che si fu capaci di dire fu: «Se non si riesce più a campare di pesca, allora chiediamo che i pescatori siano assunti dalla fabbrica». Parola di sindacato.

La rivista Taranto oggi domani nel luglio 1971 denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Nel 1980, un articolo del Corriere del giorno, riportava l’aumento folle della mortalità per mesotelioma nella provincia di Taranto nel decennio 1970-79, rispetto a quello precedente.

Decenni di denunce quasi quotidiane, cadute nel vuoto. Decenni in cui, a giocare sulla pelle della classe operaia sono stati in tanti, industriali, politici e sindacalisti.

Un dirigente dell’Ilva pubblica che intervistai anni fa sulla storia della fabbrica, a proposito dei morti sul lavoro mi raccontò: «Andavamo, pure di notte, anche nei paesi intorno, e liquidavamo… abbiamo avuto in quel momento – i primi anni – anche molta collaborazione del tribunale che ci chiamava e mediava perché diceva “mò è inutile mandare in galera…”, perché sarebbero state inchieste lunghissime, allora suggerivano “se ha un fratello… assumete la moglie…”».

Terreni per la costruzione della fabbrica pagati più del loro valore reale, assunzioni di favore anche di familiari di politici locali, sindacalisti proprietari di ditte fornitrici di beni e servizi, elargizioni in denaro a tutti i partiti e alla Chiesa. Questo fu il suo racconto.

Con la privatizzazione, nel 1995, uno dei primi obiettivi della famiglia Riva fu la liquidazione del sindacato e del conflitto in fabbrica. Fra il 1997 e il 2003 i lavoratori anziani andarono quasi tutti in pensione, grazie ai prepensionamenti e ai riconoscimenti dell’esposizione all’amianto, e i giovani furono assunti con contratto di formazione lavoro. Mi raccontava uno di loro: «Durante il corso di formazione c’era questo ricatto occupazionale, che noi per i primi due anni non potevamo iscriverci al sindacato, non potevamo partecipare alle assemblee.

L’azienda non vedeva di buon occhio i ragazzi della formazione che facevano sciopero, che facevano malattia perché stavano male, che partecipavano alle assemblee sindacali. Questa era la paura, questo era il ricatto. Stavano tentando di formare una nuova classe operaia che non doveva dargli fastidio e in parte ci sono riusciti».

Nessuna vigilanza operaia all’interno dello stabilimento e, in quel momento, solo opera di qualche attivista al suo esterno, hanno permesso ai padroni della fabbrica di sottrarsi a qualunque innovazione tecnologica diretta ad un miglioramento ambientale e della sicurezza.

Così, l’Ilva-Italsider-Ilva-Arcelor Mittal di Taranto, nata quasi sessant’anni fa come fabbrica all’avanguardia, con le migliori tecnologie allora disponibili per la produzione dell’acciaio, ha continuato a usare lo stesso ciclo produttivo fino ad oggi, incurante delle trasformazioni avvenute e ampiamente in uso nel resto del mondo. In nome della produzione e del profitto.

ANTONELLO DE PALMA

da il manifesto.it

foto: screenshot

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