Il governo che tira diritto ed evita le conferenze stampa

Se la politica economica del governo è a metà tra il mantenimento della linea Draghi e un recupero di credibilità presso l’Europa entro un margine di nazionalismo che si...

Se la politica economica del governo è a metà tra il mantenimento della linea Draghi e un recupero di credibilità presso l’Europa entro un margine di nazionalismo che si piega volentieri al liberismo continentale e nordatlantico, altrettanto non si può dire della politica sociale e civile, di quella dei diritti a tutto tondo e, quindi, della gestione delle problematiche interne al nostro Paese.

Qui Meloni e i ministri portano avanti una declinazione che, dopo i primi sei mesi dal voto settembrino, inizia ad avere i contorni chiarissimi di una rigidità pseudo-culturale, nemmeno tanto post-ideologica e assolutamente priva di uno spirito – avrebbe detto Totò – “adiacente” alla Costituzione e alla sua impronta democratica, laica, resistenziale e antifascista.

In ogni suo atto, l’esecutivo delle destre non ha fatto altro e non fa tutt’ora che dimostrare l’alterità che gli conviene per affermare un principio quasi antropologico di separazione tra la storia italiana del dopoguerra fino al nuovo millennio, con tutte le imperfezioni, le incespicature, le lacune e le mancate applicazioni di una pratica laica a pieno titolo, distaccata dagli interessi di parte e, soprattutto, di una sola parte versus le altre.

Per carità di patria! Nemmeno gli altri governi, in questi ultimi trent’anni, hanno fatto granché nel cercare di far aderire il piano costituzionale con quello della realtà quotidiana di sopravvivenza di milioni e milioni di italiani.

Ma questo di Giorgia Meloni è un esecutivo che non si presta nemmeno alla forma, all’ambiguità di cui erano capaci gli altri inquilini di Palazzo Chigi: mentre dovrebbe relazionarsi con i giornalisti e spiegare gli atti del suo governo, la Presidente del Consiglio, dopo la pasticciata conferenza stampa di Cutro, tace.

O per meglio dire, non rilascia interviste e il suo pensiero e il suo fare vengono tradotte nei comunicati ufficiali del governo e dati alla pubblica opinione come la voce unica e ufficiale che sintetizza – come è anche giusto che sia – la politica dell’esecutivo.

I ministri si adeguano e si crea una sorta di impermeabilità, di insonorizzazione degli ambienti istituzionali, per cui riesce sempre più difficile sapere delle dinamiche che hanno portato a questa approvazione di un decreto o a quel passaggio parlamentare evitato a suon di emendamenti o del ritiro frettoloso degli stessi.

Si gioca, insomma, su un piano tattico che non fa bene alla nostra democrazia, che nuoce alla Repubblica intesa come costante rapporto di scambio tra le istituzioni dello Stato e la popolazione.

Ciò che se ne può dedurre è, chiaramente, una difficoltà di gestione delle posizioni interne al governo su temi non certo di secondo piano: un giorno Salvini magnifica l’inizio delle procedure per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e, poche settimane dopo, dopo che qualcuno ha fatto due conti, si viene a sapere che le coperture per quella insana “grande opera” sono praticamente già saltate. Non ci sono proprio.

Ed ancora: mentre il Presidente del Senato tuona contro  la verità storica e fa dei soldati tedeschi del battaglione “Bozen” una banda di suonatori semipensioanti che marcia per via Rasella, mentre le dimissioni richieste da quasi tutte le forze politiche, da una miriade di cittadine e cittadini passano in cavalleria, mentre nemmeno vengono accampate delle strampalate scuse, le uniche parole della Presidente del Consiglio agli inevitabili cronisti davanti a Palazzo Chigi sono dei rimandi alla seconda carica dello Stato.

Come se quelle affermazioni non toccassero il governo, perché magari si decide lì per lì che è più utile separare i poteri proprio quando le circostanze si fanno imbarazzanti anche per chi, come la destra postfascista, intende portare avanti un disegno di riconfigurazione inculturale e antisociale del Paese per intero.

La mancanza di confronto tra Giorgia Meloni e la carta stampata, i giornali internettiani e le televisioni (a parte alcuni salotti dove la Presidente del Consiglio va più che volentieri, sapendo di poter evitare domande critiche e, quindi, considerabili come “scomode“) è qualcosa che va oltre la cattiva coscienza, lo sgarbo istituzionale verso un pilastro della democrazia (il diritto all’informazione, il diritto di cronaca, il diritto di critica primo fra tutti questi e che li uniforma e li sostiene).

E’ un tassello di protervia in più che si va ad aggiungere ad una arroganza mostrata fin da subito e su cui, francamente, non si avevano dubbi: fa parte di un modo di essere della destra fascista di un tempo e postfascista di oggi.

E’, fondamentalmente, un adeguamento ai tempi: per evitare un certo nervosismo congenito alla caratterialità della Presidente del Consiglio, una pruriginosità nei confronti delle domande dei giornalisti, si evita, ci si dilegua, non ci si mostra alle conferenze stampa e si consente ai ministri di fare soltanto poche dichiarazioni che siano preventivamente concordate.

Non vi sarebbe nulla di male nella concordanza di governo su una linea comune da tenere. Ma non nel senso di essere una sorta di censura preventiva. Anche se va un po’ capita questa etrema cautela meloniana: se la Presidente del Consiglio concede libertà di parola ai suoi, finiscono quasi sempre per compromettere prima la stabilità interna e poi anche la credibilità esterna del governo italiano.

Ad un problema di natura squisitamente ideologica si aggiungono, come è ovvio che sia, differenze interpartitiche nella maggioranza che fibrilla sui balneari e la Bolkestein, sui fondi del PNRR, sui rapporti internazionali che riguardano il riarmo e l’appoggio incondizionato alla NATO nella guerra per procura in Ucraina…

Insomma, le contraddizioni non mancano e se Giorgia Meloni pensava di poter raccontare alla stampa solo la versione propria senza entrare nel merito di tutte queste discrepanze, è ovvio che non ha fatto i conti, pur da politica di lungo corso quale, con una consolidata esigenza del Paese di essere tenuto al corrente di quel che avviene prima, durante e dopo le discussioni nel governo, nel Parlamento e in qualunque altro organo istituzionale.

Non corrisponde affatto alla realtà dei fatti la vulgata che vorrebbe il disinteresse generale per la politique politicienne come architrave della disaffezione nei confronti delle urne. Anche chi diserta il voto, spesso e volentieri lo fa perché, essendosi informato, anche se superficialmente, su quanto avviene, sceglie di protestare abdicando ad un diritto e tralasciando un dovere.

Ma corrisponde invece al vero il nesso inequivocabile tra malgoverno e separazione non consensuale da parte della popolazione, in particolare degli strati più fragili e spogliati dei fondamentali diritti sociali (e civili), laddove i temi scottanti riguardano la stabilità economica inserita in un quadro di tutela dei salari, delle pensioni, della scuola pubblica e della sanità.

Tutte problematiche che il governo affronta dal punto di vista liberista e, pertanto, partendo da una considerazione estrema dell’imprenditoria come unica fonte generatrice del lavoro (e della ricchezza nazionale), escludendo così quel ruolo pubblico nell’economia nazionale che potrebbe invece essere il motore di uno sviluppo molto diverso da quello attuale, assolutamente insufficiente per la maggior parte della popolazione.

Il silenzio meloniano sulle pratiche governative è, dunque, un indice di debolezza che non va considerato soltanto come fuga dalle responsabilità: è una trincea dietro alla quela la Presidente del Consiglio si pone insieme ai suoi ministri per portare avanti riforme e controriforme, rappporti interni ed esteri del nostro Stato senza troppo clamore.

Trovarsi davanti a tanti dati di fatto, nonostante la prassi istituzionale non sia ancora stata archiviata e funzioni – almeno si spera – nel suo normale iter procedurale, non è indice di tutela, cura ed espansione democratica. E’ una appropriazione indebita delle istituzioni, una sorta di privatizzazione delle stesse nelle mani del governo che rende conto all’opinione pubblica quel tanto che deve, formalmente e senza offrirsi al contraddittorio.

Ignorare le critiche è peggio che censurarle. Chi ignora e fa finta che l’altro non esista, ha già messo in conto di poter andare avanti senza il confronto, ma indefessamente per una strada che ritiene l’unica giusta e possibile. Se l’esercizio del dubbio e della dialettica che ne consegue vengono messi da parte, è l’intera Italia a perdervi. E non è detto che sia la maggioranza di governo a guadagnarvi.

Questo nostro Paese non è la Francia della rivolta contro la macronie, la monarchia repubblicana di un presidente iperliberista, partendo dal diritto di potersi ritirare dal lavoro ben prima di quello che tutt’oggi è previsto in Italia. Questo Paese in parte tollera di essere tenuto da parte, subisce una rassegnazione che rischia di diventare prassi consolidata di un fondamento di delega ad un potere che si regge su una minoranza estrema di consensi.

Per questo la critica ai silenzi di Giorgia Meloni e al suo nevrotico evitamento delle conferenze stampa è un campanello d’allarme che va ascoltato. Ed anche piuttosto attentamente.

MARCO SFERINI

15 aprile 2023

foto: screenshot tv

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