Il gender come luogo di contrapposizione sessuale e di rivendicazione è stato un territorio minato che, negli anni della «seconda ondata» del movimento femminista, diveniva un paradigma obbligato all’interno dell’esplorazione corporea.

La pluralità di forme di attivismo e di mobilitazione delle donne si articolava col riemergere del Women’s Rights Movement e con il Women’s Liberation Movement, organo di pratica politica e di riflessione teorica radicali.

In questi anni di conquiste dei diritti delle donne, nel clima effervescente dei Sixties e ben prima che scoppiasse il Sessantotto, è la rivoluzionaria stilista inglese Mary Quant (Blackheath,1934 – Surrey, 2023) a ideare, nel 1963, la minigonna. Ieri, ahimé, l’icona londinese è venuta meno a 93 anni, ma il suo portato culturale e politico è iscritto nell’eternità della sua impresa.

Quant è stata la vera e unica fashion designer controcorrente, la cui lungimiranza e spregiudicatezza ha liberato le donne di tutto il mondo dal desiderio retrò e patriarcale dell’idea assoggettata del femminile.

Il miniskirt congegnato da Mary fu un colpo al cuore al maschilismo patriarcale che aveva sempre chiesto a consorti, sorelle, figlie e amanti di coltivare vizi privati ed esibire pubbliche virtù. A ispirare la Quant fu l’auto Mini Minor, creata qualche anno prima dal designer Alec Issigonis che voleva svecchiare le auto adeguandole a un modo di vivere informale e disinibito. Fin dal 1955 aprì la sua antesignana boutique Bazaar, situata in Kings Road a Londra, diventato in quel frangente un luogo di culto per la generazione dello Swinging London.

L’avvento della minigonna, fu agli inizi, urticante. Dior e le sorelle Fontana si schierarono subito contro l’affermarsi di un simbolo che molti intravvedevano come un segno del radicalismo di sinistra fortemente marxista. In Francia era considerato un atto provocatorio e un incitamento alla violenza sessuale e la Santa Sede rese rigide le norme di ingresso nei luoghi di culto, vietandola.

Ho sempre disegnato abiti fin da piccola perché non mi piaceva com’erano, paralizzanti e innaturali. Il buon gusto è morte, la volgarità è vit.

aFu identificata come l’emblema della perdizione, nonché del malcostume. In realtà rappresentava una sorta di autogoverno del corpo, frantumando l’immagine familiare e familista, sottomessa e materna. Inoltre smantellava l’idea del femminile oblativa e non seduttiva, sublimata nelle virtù domestiche.

La minigonna fu una sorta di uragano visuale che reinventava il corpo femminile nel suo Körper e nel suo Leib, che esplose e imperversò nelle strade di tutto il mondo, irriverentemente, col suo carico ribelle, poiché pregiudicò per sempre il potere maschile di decidere ancora del corpo femminile. Lunga vita a Mary Quant che spinse le donne ad autoaffermarsi con un semplice outfit, che però seppelliva anni di bustier e crinoline.

Ma non fu solo questo. La moda per effimera e glamour che sia (che è un suo pregio) ha un portato culturale planetario. Cambiò l’idea del femminile, certo, ma cambiò l’environment e la relazione che tra essi si instaurava nel varco di tempo che separava dall’utopia della contestazione del Maggio 68. Quant reinventava l’allure, delineando un paesaggio corporeo che si prestava allo style life del moderno, in cui l’abito non era solo decorazione e sublimazione ma era quasi un dispositivo funzionale alla vita frenetica della modernità.

Fu un resettamento corporeo totale (che certo investiva una emancipazione culturale e politica): squarciò le antiquate coiffures con i memorabili tagli geometrici e asimmetrici di Vergottini e di Vidal Sasson, ridisegnò le geometrie corporee con linee decise e a trapezio senza maniche e in jersey, ideò impermeabili con cappelli in Pvc dai colori elettrici, tute, pantaloni e collant sgargianti, che poggiavano sulle forme del corpo senza seguire le plasmazioni feticistiche maschili.

Accorciò visibilmente i lembi delle gonne mostrando quelle gambe da sempre «oggetto proibito», disegnò hot pants, fece leva sugli stivaloni, riscrisse l’arte concreta con fantasie e astrazioni beat inverando soluzioni bicrome dai vestiti agli accessori.

Nel 1966 lanciò una linea di cosmetici e di calzature ed immolò, come sua musa, la diciassettenne Leslie Hornby meglio nota come Twiggy, la top model fuori dagli schemi, quasi androgina (come uscita dalla Factory di Andy Warhol) simbolo della scossa culturale che Quant stava imponendo.

La sua idea di corpo femminile era liberatoria ed estetica, come lo fu negli stessi aurei anni, quella scultorea di Paco Rabanne e quella ingegneristica di André Courrèges. Miti assoluti.

Nonostante la radicalità dell’impresa estetica anti-conservatrice, nel 1966, fu perfino nominata Cavaliere della Colonia Britannica dalla regina Elisabetta, la BBC le ha dedicato il documentario La vita di Mary Quant. Scrisse la sua autobiografia nel 1967 Quant by Quant e nel 2012 pubblicò Quant by Quant: the Autobiography of Mary Quant. Nel 2019, il Victoria & Albert Museum di Londra le ha dedicato la prima retrospettiva internazionale che ripercorreva la sua storia dal 1955 al 1975.

Fu soprattutto la sua verve avanguardistica a farla divenire immortale perfino sovversiva. Quant, infatti, riformando lo style life innescava il potere decisionale del sé che induceva le donne di interi continenti a incarnare ed esplicitare la propria soggettività contro tutto e tutti.

TERESA MACRÌ

da il manifesto.it

foto: screenshot da Wikipedia