I miei sette figli

E’ un piccolo grande trattato di umanesimo contadino, di straordinaria empatia tra l’essere umano e la natura, tra l’uomo e tutto ciò che lo circonda e che, inevitabilmente, finisce...

E’ un piccolo grande trattato di umanesimo contadino, di straordinaria empatia tra l’essere umano e la natura, tra l’uomo e tutto ciò che lo circonda e che, inevitabilmente, finisce per compenetrarlo. Alcide Cervi, scrive le memorie dei suoi sette figli, ed in parte anche di sé stesso, quando ha ormai ottant’anni, quando – dice – è pronto a farsi da parte, a lasciare la vita che lo ha percosso tanto, che lo ha costretto a reinventarsi come nonno di una schiera di nipoti mentre non aveva più nessun figlio accanto.

Ma, precisa fin da subito, «dopo un raccolto ne viene un altro, a significare che non c’è interruzione alcuna tra l’ieri e l’oggi e che la morte è superata dalla nuova vita, dalle generazioni che non sono state abbattute dalla dittatura nazifascista e che ricorderanno, tramanderanno e impediranno all’abitudinarietà di dimenticare quanto è accaduto in quell’Italia sferzata dalla feroce repressione di Mussolini e dei criminali come lui, delle camicie nere che battevano le campagne alla ricerca degli oppositori, dei partigiani, di chiunque lottasse e resistesse.

Ne “I miei sette figli” (Einaudi, Tascabili Saggi, 2014), papà Cervi quasi dipinge mentre racconta e scrive: lo stile è accuratamente semplice, pacato, armonioso. Accarezza le immagini che gli si susseguono vividamente nel processo dei ricordi. Pare di essere davvero nella terra brulla, in mezzo ai filari di pioppi, come cantano i Gang «da Valle Re ai Campi Rossi…», e pare di scorgere i sette fratelli che sono nei campi, che lavorano, che tornano a casa dalle mogli e dai figlioletti.

La loro è una vita rurale intrisa di lotte sociali e politiche. E’ lo stesso Alcide ad abbeverarsene: «Aldo mi ha dato quel poco che ho di intelligenza politica, e io a lui ho dato il senso della protesta»; perché, dirà Alcide molto tempo dopo la guerra, che bisognava protestare, opporsi alle angherie di ogni tipo, respingere le ingiustizie e migliorare quella vita dura, quell’esistenza fatta di terra bassa, di sole che ti picchia sulla testa, di braccia che si irrobustiscono e di piante che crescono e danno ogni anno i loro frutti.

Del resto, a protestare – dirà sempre Alcide, erano sia Gesù Cristo sia Lenin e, quindi, tutti potevano alzare le braccia, incrociarle e dire al padrone: «Voglio vivere meglio, oggi sciopero!», laici, cattolici, comunisti, popolari, socialisti. Nessuno escluso. Mentre il fascismo in Italia prende il sopravvento, dopo il “biennio rosso” e dopo i malumori popolari per la “vittoria mutilata” della Prima guerra mondiale e, quindi, mentre le case del popolo vengono date alle fiamme e le associazioni della Chiesa devastate, la cultura contadina resiste senza chiudersi a riccio.

Il socialismo, come orizzonte prossimo di una nuova umanità, è veramente un principio di speranza, qualcosa di più di una idea di società: è un sentire comune, una voglia di riscatto che non può essere soppressa dal totalitarismo mussoliniano. Bisogna sapere, conoscere, leggere. E i Cervi leggono: da Alcide a Genoveffa sua moglie, dai figli alle nuore.

Il rito collettivo della lettura chiude le giornate faticose della terra sempre più bassa: «La sera, Genoveffa faceva come la nonna, che non voleva mandare a letto la sposa. E diceva: state qui che leggiamo. Quelli che gli cadevano gli occhi andavano a letto, io, la cognata Bellocchi che allora era con noi, qualche figlio chi una sera chi un’altra, restavamo a sentire Genoveffa». Si legge Manzoni, si legge di Geltrude, la monaca di Monza e ci si interroga su temi etici, sui rapporti tra le persone.

Con grande semplicità di argomentazioni e, per questo, con una intelligenza veramente sincera, con la voglia di sapere e di apprendere per quel che è possibile. A poco a poco. Anche così ci si difende dal fascismo e dalla sua ridondante, aggressiva, muscolare propaganda.

I sette fratelli crescono come un solo uomo, come un “collettivo”. Fanno tutto insieme, si separano raramente. Lavorano, studiano, lottano, vivono la famiglia in simbiosi, ma ciascuno ha la sua storia che si distingue dalle altre. Ognuno ha la sua specificità, il suo carattere che viene fuori proprio nei momenti più difficili. Agostino canta, Aldo è la mente critica, quello più politicizzato, Nando e Gelindo preparano un distillato simile alla grappa. D’estate vanno al canale della bonifica, vi sistemano una pedana di legno e ne fanno praticamente una piscina.

Alcide vede crescere i suoi ragazzi in un mondo che sta radicalmente mutando: l’ombra del duce si estende su tutto il Paese, la spensieratezza di quegli anni giovanili sarà messa a dura prova ben presto.

Iniziano i discorsi su come fare fronte al regime che non trascura niente e nessuno, che arriva ovunque, anche nella più sperduta cascina della pianura del Po. Si parla di socialismo, di cambiamento: si dibatte su temi filosofici e politici al tempo stesso e si litiga, ci si accapiglia, ma tra fratelli, tra amici e tra conoscenti di lunga data.

«Socialismo e filosofia possono stare insieme? La filosofia non si può confondere con la politica, la verità non può non essere imparziale». Parole che non ti aspetteresti dai contadini, che, seguendo l’ovvio stereotipo, immagini ignoranti, zoticoni. Invece i Cervi parlano, e parlano tanto. Rumoreggiano, si fanno sentire anche in paese. Tutti sanno come la pensano su Mussolini e il suo regime criminale.

I fascisti girano attorno alla grande cascina, la annusano da lontano fino a quando sarà il fascismo a trovarsi circondato dal presente che gli si rivolta contro e diverrà, anche per questo, ancora più feroce e ancora più omicida.

Venne il tempo della terra livellata e – racconta sempre papà Cervi – il lavoro si fece ancora più duro. Ma l’altro tempo, quello per fare politica, lo si trovava. Era una necessità dei figli. Era un insegnamento dei loro genitori e dei loro nonni. Tant’è che la politica, poi, fa capolino sempre nella vita di ogni giorno. Non ti molla mai, perché la vita stessa è fatta di πόλις (polis), di una socialità che è particolarità dell’animale umano che, come sosteneva Marx, è appunto un “animale sociale” e non può ridursi ad una singolarità inespressiva, autoreferenziale e basta.

Così, quando scoppiò la guerra d’Abissinia, per la conquista coloniale dell’Etiopia di Hailé Selassié, la politica sovrastò le terre, le colture e mise i fratelli davanti al dilemma della risposta alla chiamata alle armi. Ferdinando andò dal prete e gli chiese se doveva andare? Si sentì rispondere che tra i tanti doveri dell’uomo c’era quello di servire la patria.

Alcide ricorda le parole riferite dal figlio: «Ma perché devo andare ad ammazzare gli abissini? Non è da cristiani, e poi una madre nera vale una madre bianca, e se rispetto la mia perché non dovrei rispettare quella nera?». Il prete non sapendo che rispondere, non rispose. E Nando finì per non andare in guerra e nemmeno più in chiesa.

La memoria che Alcide Cervi ha difeso, scrivendo questo volumetto, è davvero uno spaccato importante della cultura popolare, contadina e dell’Italia di allora. E’ un gentile, garbato, persino a volte timido omaggio alla semplicità dei costumi, dei pensieri e delle parole così icasticamente ben dette: quelle che spiazzano. Frasi mai lasciate a metà, capaci di disarmare, di infrangere la barriera della saccenteria tanto laica quanto clericale, tanto del fascismo quanto del ben pensare borghese.

La storia dei sette fratelli Cervi merita di essere letta tramite le parole del loro padre, riconsiderata nei tanti approfondimenti storici che le sono stati dedicati e, magari, se capita l’occasione, anche vista, andando sul posto. Là dove «…nuvola, lampo e tuono, non c’è perdono per quella notte che gli squadristi vennero e via li portarono coi calci e le botte… avevano uno sguardo e degli abbracci quello più forte. Avevano lo sguardo, quello di chi va incontro alla morte…». Là a Casa Cervi, dove oggi c’è uno splendido museo della memoria.

La storia dei sette fratelli è anche un fenomeno resistenziale, un esempio di fulgido antifascismo, di consapevolezza critica sul passato e di comprensione piena del presente. Soprattutto è, e diviene ogni giorno, uno dei tanti episodi della Resistenza popolare ad un regime di cui si rischia di tralasciare i momenti salienti delle moltissime atrocità commesse contro l’Italia e la sua gente proprio in nome della patria e di un acceso nazionalismo.

I tempi che viviamo oggi sono tanto maturi (o immaturi, a seconda dei punti di vista) da imporci letture come quella che qui abbiamo proposto e che è così semplice tanto quanto complesso il suo finale, che lascia aperto uno squarcio sul futuro, una domanda mai veramente risolta: quando possiamo dirci al sicuro da nuovi tentativi autoritari, da rigurgiti antidemocratici?

Probabilmente mai, perché nessuna conquista è veramente “per sempre“, ma deve essere difesa con la vigilanza repubblicana giorno per giorno. Così come fecero, settanta anni fa, i sette fratelli e tutta la famiglia Cervi.

I MIEI SETTE FIGLI
ALCIDE CERVI
EINAUDI
€ 11,00

Il libro è scaricabile gratuitamente dal sito dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)

MARCO SFERINI

28 settembre 2022

foto tratta da Wikipedia

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