Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia Proletaria

Le fonti della Storia, quelle che ne permettono una ricostruzione dettagliata e precisa, inequivocabile e quindi aderente ai fatti, stanno tutte, ma proprio tutte quante nei racconti particolareggiati che...

Le fonti della Storia, quelle che ne permettono una ricostruzione dettagliata e precisa, inequivocabile e quindi aderente ai fatti, stanno tutte, ma proprio tutte quante nei racconti particolareggiati che si ritrovano tanto nei documenti ufficiali quanto nei diari, negli scritti e nelle lettere conservate sia negli archivi di Stato sia da privatissimi cittadini.

Il metodo di indagine e di studio sarebbe parzialissimo e inefficace, sotto molti punti di vista, se lo storico tralasciasse le voci dei protagonisti e facesse invece parlare altri storici che lo hanno preceduto nel lavoro di acquisizione dei materiali per rimettere in piedi, mattone su mattone, un preciso fatto, una determinata vicenda o, meglio ancora, tutta una storia nella Storia con la esse maiuscola.

Saper collocare con precisione gli accadimenti, contestualizzarli quindi, è il primo vero passo per scongiurare qualunque caduta retorica o ripetizione cacofonica del passato nel presente che si proietta, immantinentemente, nel futuro.

Matteo Pucciarelli non è uno storico. Almeno non ancora. Ma è un bravo giornalista che ha saputo cogliere questa particolare metodologia di indagine: appartiene all’inchiesta dettagliata, circostanziata; quella che non ha bisogno di ulteriori chiose e che riunisce tanto la cronologia dei fatti quanto la cronaca dell’epoca traslitterata temporalmente nel linguaggio moderno di una politica così mutata da sembrare irriconoscibile rispetto anche soltanto a venti, venticinque anni fa.

Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia Proletaria” (ed. Alegre, 2011) è un agevole libro di nemmeno duecento pagine che però va letto con cura, senza troppa fretta, senza farsi ingannare dalla fluente prosa del giornalista che forse pecca un po’ in deformazione professionale nel raccontare il prologo, la vita e la fine di un “piccolo partito dalle grandi ragioni“. Così veniva genialmente compresa in una definizione ossimorica tutta un’esperienza che molti avrebbero preferito marginalizzare, sottacere e relegare in un oblio politico prima di tutto e poi, indubbiamente, anche storico.

Per certi versi, la storia di Democrazia Proletaria è un po’ come quella di Rosa Luxemburg (cui i comunisti di DP erano profondamente affezionati e legati) se paragonata al titaneggiamento di Lenin nella parabola novecentesca del movimento operaio. La grandezza del PCI stava all’egemonia leninista come la piccolezza di DP allo spartachismo ritenuto sconfitto e superato da un giudizio proprio della Storia, oltre che da alcune valutazioni di Vladimir Il’ič Ul’janov forse schiette ma molto poco generose verso la Luxemburg che, nonostante tutto, per Lenin rimaneva “un’aquila”.

Anche la storia di un piccolo partito può conoscere delle inversioni di proporzionalità e sviluppare qualche ricchezza: anzitutto ideale e ideologica, recuperando un marxismo incrostato dal brucocraticismo tanto di partito quanto dal freno alla spinta libertaria del movimento operaio messa dallo statalismo, dalla declinazione di un socialismo regolamentato da un finto pragmatismo degenerato in un riformismo socialdemocratico nell’Europa occidentale e soffocato dallo stalinismo ad Est.

Che si potesse dopo il 1968 e i primi anni ’70, dopo quell’inebriamento rivoluzionario, dare vita ad una nuova formazione politica organizzata comunista, libertaria, comprendente le anime più diverse unite anche (quindi non solo) dalla critica al socialismo reale (quindi irrealizzato), pareva quasi impossibile. Invece accadde. Ne nacque, dopo diverse vicende di movimento, di scambio dialettico culturale e politico, socio-antropologico con proiezioni modernissime sull’ambientalismo e i diritti civili, proprio Democrazia Proletaria.

Fare una sinistra comunista a sinistra del Partito Comunista Italiano era già, di per sé, una utopia: più grande forse del comunismo stesso. Che non era utopia per i comunisti, ma che doveva necessariamente esserlo per chi era tutt’altro, per chi era “il resto“. Eppure quell’impresa riuscì e mise radici nell’intero Paese: dal nord industriale e proletarizzato al sud sottoproletario, più agricolo e colonizzato dal capitalismo settentrionale.

Matteo Pucciarelli fa parlare i protagonisti di quello che Paolo Villaggio, candidato di DP alle europee del 1987, una “setta di protocristiani“. C’è una vena cattolica in quel partito comunista che rifiuta la vicinanza all’URSS, che critica ogni tentazione verticista e che si divide al suo interno tra due grandi famiglie visionarie: i “partitisti” più operaisti, ed i “movimentisti” invece protesi ad una modernità rivoluzionaria che guardava alle tante forme che la lotta di classe prendeva senza seguire l’ordotossia novecentesca delle organizzazioni marxiste strutturate.

Sarà una divisione – ricorda Pucciarelli – che segnerà tutto il percorso di vita di DP e che, alla fine, marcherà anche i confini della successiva divisione quando i demoproletari, sciolto il loro partito, si divideranno tra la stragrande maggioranza che entrerà nel nascente Movimento per la Rifondazione Comunista, mentre una minoranza sceglierà le lotte ambientaliste come nuova frontiera dell’anticapitalismo.

Non si può raccontare il coraggioso libero di Matteo Pucciarelli rischiando, riga dopo riga, di fare storia della storia: oltre ad essere “spoiler” per chi ancora non conosce la intrigante vicenda di DP, si farebbe torto al lavoro dell’autore che, da giovane giornalista (nel 2011), ha tentato una rivincita sull’enorme mole di documenti e di trattati, di storiografia che considera il comunismo italiano quasi esclusivamente appannaggio del PCI e che tende, molto spesso involontariamente (ma non meno colpevolmente), a trascurare le altre esperienze che segnarono la tribolata vita della sinistra comunista in Italia.

Le ritroviamo tutte, ma proprio tutte, nell’avventura degli ultimi mohicani demoproletari: dal Movimento studentesco (quello con la “emme maiuscola“) di Mario Capanna al Movimento Politico dei Lavoratori (eccoli i protocristiani citati da Villaggio) di Giovanni Russo Spena; da forze più moderate (ma nemmeno poi tanto, dipende sempre dai punti di vista. Politici…) come lo PSIUP e il PdUP, a quelle più estreme: Lotta Continua, Avanguardia Operia, Potere Operaio.

Ogni dialogo con i protagonisti dell’epoca è una finestra su un recente passato politico e sociale che apre ancora interrogativi ad una sinistra ormai esangue, sfinita, consunta e dispersa. Oltre a Giovanni Russo Spena e Mario Capanna, Pucciarelli fa parlare leader storici di allora, ed anche del dopo-DP: Franco Calamida, Saverio Ferrari, Giovanni Impastato, Paolo Ferrero, Gian Paolo Patta, Eugenio Melandri, Michele Pazienza ed Emilio Molinari.

C’è già tutto in questi pochi nomi. Essenziali, fondamentali, imprescindibili per capire la genesi di DP, la sua evoluzione ed anche la sua fine che fu tutt’altro che mesta e silenziosa, triste e funerea.

I comunisti e le comuniste demoproletari non venivano meno nel 1991 alla loro storia, ma per far vivere quell’esperienza ancora ed ancora, avevano bisogno di innovarsi, di non rinchiudersi nel settarismo dogmatico dell’immutabilità degli eventi, ma di fare propria la dialettica della vita stessa, del mondo, dell’Italia che mutava repentinamente e che abbandonava troppo in fretta i suoi vecchi valori sotto le pressioni di un capitalismo tutt’altro che moderno e moderato nelle sue pretese.

C’era una globalizzazione che si andava strutturando, un comunismo nuovo, come “movimento reale“, occorreva fosse inventato. Era la rivincita di Rosa Luxemburg e del libertarismo sui dogmi staliniani, sul socialismo del blocco sovietico che aveva persino negato l’internazionalizzazione delle lotte proletarie.

Forse Rifondazione Comunista non ha dato ancora, dopo trent’anni, una risposta esaustiva a questa necessità sempre più impellente e, al contempo, anche a sinistra osservata come un anacronismo, laddove, tutto intorno, è più seducente la nuova proposta del pensiero unico imbellettato qua e là da tratti di un ipocrita social-liberalismo di centrosinistra.

Se così è o può essere, leggere le vicende donchisciottesche degli ultimi mohicani servirà come lavacro purificatore, come catarsi utile e non utilitarista: per recuperare quei valori e quelle idee che stanno alla base, soprattutto oggi, di una lotta che si può fare nel nome di tutto il movimento comunista italiano e, proprio per questo, pure nel nome di Democrazia Proletaria.

GLI ULTIMI MOHICANI
UNA STORIA DI DEMOCRAZIA PROLETARIA
MATTEO PUCCIARELLI, ED. ALEGRE, 2011
€  15,20

MARCO SFERINI

24 novembre 2021

foto: particolare della copertina del libro

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