La scelta, il 5 novembre, sarà tra la terza guerra mondiale e la seconda guerra civile». Contro il primo scenario, cioè Joe Biden, e contro il secondo scenario, cioè Donald Trump, propone la sua agenda pacifista e radical il candidato presidenziale Cornel West. Zero possibilità di diventare un’alternativa realistica ai due principali sfidanti.
Eppure il grande filosofo e attivista nero è da prendere sul serio. Se non come candidato, certamente come portatore di un messaggio che l’America progressista farebbe bene ad ascoltare.
Come quando, al termine di una bella intervista di ieri con Stephen Sackur della Bbc, fa una disamina molto severa dell’attuale amministrazione, specie della sua politica internazionale, per concludere con l’allarme di una terza guerra mondiale, con Biden rieletto, o di una nuova guerra civile, con Trump presidente.
Nessuno dei due scenari si realizzerà in termini così netti, eppure è lo stesso Biden a evocare spesso la catastrofe democratica se sarà eletto il suo rivale, presentando il voto di novembre come un referendum sulla democrazia stessa. Ed è Trump, dal canto suo, a darne conferma con una campagna elettorale che è un fiume in piena di odio e di violenza verso gli avversari e di minacce di vendetta nei confronti di tutti coloro che hanno cercato di fermarne abusi di potere e tentativi insurrezionali.
Ed è ancora Biden a far temere lo scivolamento verso la terza guerra mondiale, con una politica interventista, conseguenza non di una strategia coerente e comprensibile, e neppure di esigenze, per quanto pretestuose, di “sicurezza nazionale”, ma di una serie incrementale di errori tattici e di una sottomissione incondizionata a un alleato che ne detta le mosse.
Il rischio che il voto del 5 novembre si svolga in un clima di massimo disordine è altissimo, alimentato dalla reiterata intenzione di Trump, peraltro condivisa dai big del suo partito, di lasciare al loro destino gli alleati della Nato, e in quel clima potrebbe avvenire un avventuroso passaggio dei poteri, al cui il 6 gennaio 2021 potrebbe sembrare solo la prova generale.
Alla Casa bianca e nel Partito democratico si è ben consapevoli dell’atmosfera di tensione negativa che pesa sulle speranze di rielezione del presidente e si tenta di sgombrare il campo dal tema che maggiormente pesa sulla campagna elettorale, cioè l’aiuto militare e il sostegno politico ed economico a Israele.
Biden ha alzato i toni nei confronti di Netanyahu, Blinken cerca di mitigare le ire degli alleati arabi, strateghi della campagna elettorale sono stati inviati nei distretti elettorali a maggioranza araba e musulmana, specie nell’area metropolitana di Detroit, per tentare di far rientrare la protesta crescente di esponenti della comunità, tradizionalmente democratica, intenzionati a ritirare il loro endorsement a Biden.
Se non si spegne la miccia mediorientale, Biden rischia davvero la rielezione, specie se la crescente rabbia dell’elettorato arabo e islamico trova sostegno nella comunità African American, dove la causa di Gaza è sentita e condivisa. S’aggiunga anche l’inedito fenomeno di ampie porzioni di elettorato nero e latino decise a lasciare il campo democratico per votare Trump. Ed è un quadro che interessa anche il destino di molti parlamentari democratici che si ricandidano e di molti nuovi candidati negli stati in bilico. La sconfitta di Biden sarebbe anche la loro. E con loro la perdita dell’attuale maggioranza, per quanto risicata, al senato.
L’impasse di Biden è dunque eminentemente politico, anche se i media – e naturalmente i nemici repubblicani – puntano il dito su quello che considerano il suo tallone d’Achille: l’età avanzata e i problemi d’inadeguatezza a essa connessi.
È una narrazione che, se funziona, reiterata nel tempo, di qui a novembre, può logorare l’immagine del presidente presso l’elettorato indipendente, importante negli stati in bilico, che tuttavia si trova come opzione alternativa un rivale che ha esattamente lo stesso handicap, se di questo si tratta, con in più un bagaglio molto pesante di processi e di indagini che, se non scalfisce la fede cieca della sua base, influenza negativamente l’elettorato conservatore moderato, sia indipendente sia anche del suo stesso partito.
In assenza di primarie da raccontare, è iniziata la personalizzazione di quello che è fin da adesso un duello, con la serie di colpi bassi personali connessi, un match che normalmente caratterizza l’ultimo scorcio dello scontro, dopo le convention estive dei due partiti, fino a novembre. Se e quando Biden mostrerà di aver riacquistato forza politica, tale da essere rispettato, per esempio, dal subdolo alleato di Trump, «Bibi» Netanyahu, , la sua fragilità dovuta all’età non sarà più il tema, così come in Italia si parla dell’ottantaduenne Mattarella come del vero, solido, leader del fronte democratico.
GUIDO MOLTEDO
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