Dagli appelli unitari ad una vera politica contro le destre

Gli appelli alla formazione di schieramenti ampiamente tali da poter contendere in termini assoluti e percentuali alle destre di aggiudicarsi sempre maggiori spazi istituzionali, di vincere quindi le tornate...

Gli appelli alla formazione di schieramenti ampiamente tali da poter contendere in termini assoluti e percentuali alle destre di aggiudicarsi sempre maggiori spazi istituzionali, di vincere quindi le tornate elettorali una dopo l’altra, sono senza ombra di dubbio elementi utili non solo di critica ma pure di proposta.

Soprattutto se si considera la pochezza della politica delle forze che dovrebbero da sole trovare una quadra programmatica e, quindi, rinvigorire lo spirito di coinvolgimento proprio in un contesto sociale adeguato per ridare un senso e un significato ad una alternativa di governo netta, dai contorni ben definiti.

Questi appelli, ancora di più diventano una spinta propulsiva se sono sostenuti da grandi firme di eminenti scienziati, uomini di cultura, politici di vecchia data, vere e proprie personalità ritenute trasversali, quindi ascrivibili ad una indipendenza rispetto a partiti e movimenti, pur essendo marcatamente riconoscibili come progressisti e di sinistra.

Tuttavia non sono sufficienti a smuovere vecchie incrostazioni interne, lotte di aree e di tendenze, prospettive divisive sulla base di questo o quel tema nello specifico, sostenute da delle pseudo-tattiche di contrasto e di frontismo (anti)popolare che finiscono per divenire i veri e propri ostacoli ad una ricomposizione unitaria di quello che poi veramente manca.

E quello che manca è un progressismo concreto, fatto di rivendicazioni fondanti una nuova sinistra antiliberista, critica nei confronti di tutto quello che, almeno fino ad oggi, sia il PD sia il M5S hanno, in varie mutazioni genetiche e in altrettante varie forme, rappresentato a differenti livelli amministrativi.

Logica vorrebbe che le sinistre stessero con le sinistre, le destre con le destre e il centro col centro.

Invece, nella confusione abnorme di una politica italiota, molto italiana e tanto volutamente idiota, il centro ha assunto le prerogative nominali della sinistra, la sinistra moderata si è accodata per opportunismo al centro e la destra ha tratteggiato i suoi nuovi confini moderni coniugando il vecchio armamentario neofascista con un imbellettamento abbruttente di liberismo esasperato, necessario per affrontare la competizione di governo.

Non la tattica politica ha prevalso in tutti questi passaggi elettorali, in questi lunghi anni di traversata nel deserto di una inutile ricerca della sinistra proprio dove era venuta sempre meno, ma una strategia oculata, un tentativo riuscito di separare sempre di più il corpo elettorale da una ripetitività concettuale, programmatica e tutt’altro che pratica di una serie di riforme sociali impossibili da realizzare.

Non per la mancanza di consensi elettorali, ma per la strutturazione di un sistema politico che era in aperta dissonanza con i bisogni di una popolazione, costretta a smarrirsi nel contatto con i grandi partiti di massa venuti meno; costretta a fuoriuscire dal campo delle dissacrantissime ideologie, nemiche giurate della fluidità di un capitalismo da ricollocare sulla scena tanto mondiale quanto europea ed italiana.

Una popolazione costretta ancora di più a ritrovarsi in una atomizzazione delle differenze che non erano più depositarie di valori precipui, ma ostacoli alla condivisione, all’unanimismo, alla partecipazione totalizzante ad un progetto di pensiero unico e di struttura unica del capitale calata nella nuova politica che lo doveva necessariamente rappresentare. Tanto da destra, quando dal centro e pure da sinistra.

Quella che tantissimi organi di informazione hanno continuato a definire, utilitaristicamente, come “sinistra“, secondo le loro visioni e i loro piani di rafforzamento della convinzione popolare che quella fosse ancora la parte politica che sosteneva il mondo del lavoro e degli sfruttati, ha dimostrato a sé stessa, soprattutto con il travolgimento dell’esperimento di unità nazionale liberista del governo Draghi, di aver esaurito la possibilità di continuare a mantenere un (dis)equilibrio tra apparenza progressista e sostanza liberista.

Altri appelli, non certo quello che riguarda l’unità delle forze democratiche per affrontare la tornata elettorale nel Lazio, hanno prodotto motivazioni per sostenere dentro il Partito democratico una stagione di mutamento strutturale, di cambiamento a centottanta gradi di una rotta che ha portato sugli scogli proprio il progetto originario del PD.

Un progetto che riguardava l’unione delle culture socialdemocratiche (di sinistra) e popolari (di centro), per dare vita ad una forza di centrosinistra attorno alla quale si posizionassero una serie di satelliti, così da costituire una coalizione permanente o quasi alternativa, nella logica bipolarista, alle destre-centro.

D’altro canto, il Movimento 5 Stelle, privo di una base culturale storica, di un solido impianto ideologico, di una visione distinguibile di società se non quella visionaria di Casaleggio, affidata ad una retrocessione democratica iniziale affidata alla partecipazione telematica, allo scompaginamento del ruolo parlamentare della Repubblica, visto più come un ingombro alla modernità della valorizzazione della volontà del singolo entro la collettività (“ognuno vale uno“), non ha certamente avuto dalla sua meno contraddizioni rispetto al PD.

E’ per questo che oggi, nonostante si sia accusata la sinistra di alternativa, quella “radicale” nel senso di “estrema“, cocciutamente comunista e libertaria, indefessamente anticapitalista e antiliberista, di essere la causa della vittoria delle destre per lungo tempo, si scoprono le carte e si può assistere ad una competizione di un campo progressista da parte di due forze che o hanno perduto il punto di riferimento culturale, sociale e politico di sinistra, oppure stanno tentando di accaparrarselo precipitosamente ora.

E’ un balletto di mediocrità politica in cui l’elettorato non si può riconoscere se non per disperazione, perché dall’altra parte c’è ancora di peggio. Con un Terzo Polo che viene lusingato nel migliore dei casi, ricercato come alleato principale nel peggiore e proprio da un PD che, in tutte le espressioni dei candidati alle primarie per la segreteria nazionale, sostiene di voler essere totalmente altro da sé stesso, non fosse altro rispetto al recentissimo tracollo del 25 settembre 2022.

La questione del Lazio è veramente emblematica: le divisioni della sinistra moderata e compatibilista (Sinistra Italiana, Possibile, formazioni ancora minori, includendo anche i Verdi, per carità di patria e bontà divina) risultano quasi cicliche proprio se riferite ai momenti elettorali. L’intransigenza di certe posizioni, la risolutezza nel difendere univocamente lavoro e ambiente, riesce difficile da mettere in correlazione con, ad esempio, l’impostazione fortemente liberista del Terzo Polo.

Eppure, la sinistra moderata di Fratoianni, i Verdi di Bonelli e Possibile di Civati riescono ad essere un usato sicuro per tutti gli amalgama che prendono corpo nei diversi contesti: in Lombardia in alternativa alle destre e alla Moratti, nel Lazio tutti insieme appassionatamente.

Così come gli appelli, per loro stessa natura, non sono la causa prima di un cambio di linea politica nella piccolezza tattica di cui abbiamo già detto, altrettanto questa sinistra che fa della compatibilità e del governismo la sua bussola non riesce a raccogliere attorno a sé un consenso che le permetta di forzare programmaticamente, di aprire delle contraddizioni nelle coalizioni di cui entra a far parte. Ciò non avviene perché vive una auto-contraddizione che non è risolvibile.

Ciò che avrebbe veramente messo in discussione il polarismo, ancora proposto nella logica delle tante leggi elettorali create per distorcere il vero significato della delega democratica, sarebbe stata una rottura drastica con quella compatibilità di sistema che il PD nella sua interezza, i Cinquestelle prima della caduta di Draghi e Sinistra Italiana anche dopo il ruolo di opposizione allo stesso, hanno vissuto diversamente e differentemente messo in pratica.

Così non facendo hanno impedito la nascita di una nuova considerazione dei confini politici e dei riferimenti sociali a cui si sarebbero potuti rivolgere.

La conseguenza è la prevalenza di un opportunismo politico che prevarica le esigenze e i bisogni sociali, orfani di una rappresentanza partitico-movimentista, di una sponda che sia nuovamente plurale nel raccogliere le tante frustrazioni di un mondo del lavoro e dello sfruttamento che, inevitabilmente, finisce per guardare a destra, radunarsi nell’astensionismo cronico, oppure votare stancamente per una brutta copia delle forze più reazionarie e conservatrici.

Dunque, gli appelli sono utili se, oltre a muovere le coscienze, non restano tali, ma vivono oltre sé stessi, oltre il momento elettorale. Se puntano a costruire su quella consapevolezza critica un presidio permanente di critica ad una sinistra necessaria tanto quanto smarrita e consapevole di essersi adeguata ai dettami del mercato.

Gli appelli sono utili se prescindono anche un po’ dal voto. Se divengono un primo passo per una nuova cultura della partecipazione che non sia solo il mettere una firma sotto un testo predisposto da altri, ma sia la collaborazione ad un progetto sociale che abbia bisogno di un nuovo riferimento ideal-ideologico.

Soltanto così le grandi file di firme possono avere una qualche utilità nel coniugare analisi e tesi per provare a dare una sintesi politica nell’oggi, proiettandosi davvero oltre i confini dell’elettoralismo e dell’istituzionalismo quasi fine a sé stesso, certamente rivolto alle contingenze che prescindono dagli interessi popolari.

MARCO SFERINI

8 gennaio 2023

foto: screenshot

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