Da quale parte stiamo?

Seppur differenti per importanza, effetto politico, strategico e anche tattico, il primo turno delle legislative francesi e le amministrative italiane hanno qualcosa in comune, di molto particolare che, a...

Seppur differenti per importanza, effetto politico, strategico e anche tattico, il primo turno delle legislative francesi e le amministrative italiane hanno qualcosa in comune, di molto particolare che, a prima vista, forse sfugge nella baraonda di dati in percentuale, in voti assoluti, tra discorsi sulle coalizioni che si riformano, sul tipo di legge elettorale da adottare per meglio rappresentare la volontà popolare, incentivare la partecipazione e, quindi, dare pienezza di contenuti alle deleghe ricevute dai candidati eletti.
Ed è proprio in questo frangente che si legge una consonanza drammatica tra l’Oltralpe e l’Alpe: il crollo verticale dell’empatia tra istituzioni e popolo.
Un fenomeno che in Italia si era già ampiamente manifestato negli scorsi anni, ora investe anche la Francia nonostante il cosiddetto, tanto celebrato, “ciclone Macron”.
Si dirà che le leggi elettorali sono differenti da paese a paese. Verissimo. Però tutti i commentatori, o quasi, sottolineano sempre che il proporzionale disincentiva la formazione di una stabilità di governo mentre il maggioritario la suggerisce, la rende necessaria.
Non è necessariamente e meccanicisticamente così, ma poniamo che sia tale la situazione: quale è il prezzo della governabilità? La disaffezione dei cittadini da un contesto politico reso banale e vuoto da confronti non più ideali, fatti di programmi, ma solo da contrapposizioni leaderistiche?
Può essere uno degli elementi che hanno portato ad una atomizzazione delle posizioni e ad una progressiva indistinguibilità di quelli che un tempo erano dei confini ben marcati tra le forze politiche. La mobilità del voto era, allora, minore rispetto ad oggi e non si traduceva in un astensionismo così evidente, forte, in costante crescita.
Oggi, invece, la facilità di sgonfiamento di un partito o di un movimento è una costante di ogni elezione quando si tratta di giudicare in base non alle idee e alle tanto vituperate “ideologie” ma, bensì, in base a ciò che è accaduto magari soltanto una settimana prima del voto e qualche giornale o televisione ha abilmente gonfiato come notizia da mettere sotto i riflettori.
Quindi, oltre al tipo di sistema elettorale, oltre alla leaderizzazione delle elezioni, l’influenza mediatica torna ad essere prepotentemente importante nell’influenzare le scelte popolari.
E questo accade perché non esiste un tessuto sociale di riferimento che sia una base forte di collegamento tra pratica quotidiana della nostra vita e rappresentazione della medesima nella politica di palazzo, nella gestione della cosa pubblica.
La scissione tra questi due elementi, la mancanza di un classismo ben definito, la non percezione di appartenere al mondo degli sfruttati piuttosto che a quello degli sfruttatori, questa specie di “pace sociale” non dichiarata ma bene espressa dalla convergenza di più culture riformiste trasformatesi in liberiste, tutto ciò ha prodotto in poche ore dichiarazioni stupefacenti: dal tripolarismo che favoriva la creazione di una legge elettorale (fintamente) proporzionale si è ora passati alla resurrezione del bipolarismo che stimola la creazione di una disciplina del voto su impianto “regionale”.
Insomma, si naviga a vista, a seconda dei particolari interessi di ciascuno, privi di qualunque sguardo per il bene comune, per regole veramente uguali per tutti.
Non c’è regola che tenga davanti alla necessità di governare a tutti i costi. E quando è solamente il governo che conta nel tuo programma politico, allora ogni altra enunciazione sul difendere le classi più disagiate e deboli diventa un mero corollario per potersi etichettare “di sinistra”, vagamente, senza troppa necessità di rappresentare una partigianeria distinguibile da tutte le altre forze politiche.
E così, pure, non basta presentare alle elezioni il vecchio simbolo del Partito Comunista Italiano per sperare di ricostruirlo. Come si può pensare di creare una casa dal tetto piuttosto che dalle fondamenta?
So che mi ripeto, ma credo sia un punto fermo piuttosto inascoltato quello che vado ripetendo da anni: nel Paese, è evidente, manca una domanda di sinistra. E manca anche una domanda di sinistra più specificamente comunista.
Per far riemergere questa domanda occorre anche riunire la sinistra di alternativa attorno ad un più piccolo programma antiliberista (piuttosto che anticapitalista che, è evidente, sarebbe escludente per alcune forze che hanno abbandonato l’orizzonte del cambiamento a centottanta gradi della società), ma andrebbe data vita ad una grande convenzione nazionale quasi permanente per studiare davvero un processo costituente che si vada formando con tempi lunghi, senza pretese di governare il Paese perché viviamo in una fase dove un governo delle sinistre di alternativa è impossibile e, qualora lo fosse, finirebbe per esserlo mediante compromessi con forze che fanno del libero mercato il loro punto di riferimento (anti)sociale.
Per questo, si rinasce come comuniste e comunisti e come sinistra di alternativa se si ritorna ad essere riconoscibili e se, per fare questo, si mette avanti a tutto la necessità della differenza senza se e senza ma. Compresa l’archiviazione di ogni appello al cosiddetto “voto utile”.
Che fisionomia politica può avere una sinistra di alternativa che invita a votare il “meno peggio”? Davvero per questa sinistra il PD è meno peggio delle destre berlusconiane? Solamente perché queste ultime sono muscolarmente aggressive a parole e negano i diritti civili?
Forse che questi diritti non sono negati dal governo con le politiche dei decreti Minniti – Orlando? Forse che i diritti sociali non sono negati con il Jobs act? Forse che il 4 dicembre scorso, proprio contro questa presunta sinistra “democratica” abbiamo, noi popolo del NO in difesa della Costituzione, sconfitto un assalto alla centralità del Parlamento come organo di libera espressione del volere popolare?
Se nessuna alleanza è possibile, diventa anche impossibile qualunque preferenza per chi ogni giorno tenta azioni parlamentari per escludere le minoranze dalla partecipazione istituzionale. E’ questo il “meno peggio”? Così si crea una domanda di sinistra di alternativa nel Paese.
Così si mostra solamente di avere paura di dire chiaramente che le destre sono più di una e che vanno combattute tutte e tre: populismo, economicismo democratico liberista e vecchio armamentario di destra da “prima Repubblica”.
Non si recupera l’astensionismo con l’omologazione anche indiretta, anche non volutamente cercata ma, diciamo così, “indotta” da un qualche certo spirito di repubblicana virtù in difesa dei valori costituzionali.
Il “meno peggio” che qualcuno di voi individua nelle forze non classicamente di destra è uno specchietto per le allodole, una falsa apparenza. Un inganno.
I parlamenti passano, i consigli comunali pure. Ma la coscienza della gente non può passare in base al condizionamento mediatico ispirato dal volere del mercato: la coscienza va formata sull’essere sociale di ciascuno di noi. E la riscoperta di questa essenza sociale deve essere il programma dei comunisti e delle comuniste del XXI secolo. Così, sapendo cosa siamo, ci riconosceremo e potremo dire: “Ecco, siamo degli sfruttati e il nostro partito è questo”. Facciamo che sia un partito comunista.

MARCO SFERINI

13 giugno 2017

foto tratta da Pixabay

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