Coronabond, non confondere il realismo con il lealismo

Ue. Dove riverserebbe la Germania le sue merci se il mercato europeo, già monco per la Brexit, gli si sfarinasse davanti? Ciò che è irrealizzabile non è un necessario e utile atto di solidarietà, ma un isolazionismo fondato sull’insana convinzione dell’intrinseca superiorità teutonica che tante tragedie ha già portato

Dopo la fumata grigia del vertice Ue di pochi giorni fa e in attesa dei nuovi imminenti appuntamenti, finita la pausa di «riflessione», rimbalza con insistenza il termine «realismo». Bisognerebbe però non confondere il realismo con il lealismo.

Il cambio di consonante indica la sudditanza psicologica e politica ai poteri costituiti e dominanti. E di questo purtroppo si tratta. È chiaro ormai che la scelta di fronte alla quale la Ue si trova è se fare ricorso agli eurobonds (o coronabonds) oppure no. Tutto il resto dipende da questo, comprese le modalità e le varie tecnicalità connesse, pur con la loro importanza.

Roberto Perotti, economista di fama, sostiene che non bisogna alimentare l’illusione dei coronabonds, perché non si può pretendere che la Germania garantisca per l’Italia e neppure un Mes privo di condizionalità andrebbe bene perché sarebbe un sussidio implicito ai paesi mediterranei. Più soft, ma sulla stessa lunghezza d’onda, le esternazioni del commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni. Dunque siamo condannati a fare da soli? Se così fosse non soltanto sarebbe assai periglioso l’esito per l’Italia, ma per la sopravvivenza dell’Unione europea.

La Germania non è affatto un blocco compatto. Anzi. La convinzione che neppure la traballante locomotiva tedesca ce la possa fare da sola si sta facendo strada. Non solo nel quadro politico, ove sarebbe più scontato, ma anche in quello economico e scientifico.

Da diversi giorni circola un appello internazionale di economisti, con ben oltre 500 firme, che si pronunciano per gli eurobonds. Sul Frankfurter Allgemaine Zeitung noti economisti tedeschi ci ricordano che non solo l’argomento non è tabù, ma vi sono precedenti come per esempio quello della Cee che emise, per il superamento della crisi petrolifera del ’74, un titolo comunitario per garantire la ripresa. L’attuale crisi è simmetrica, ma non lo sono certo le condizioni di partenza con cui i vari stati europei si sono trovati ad affrontarla fin dall’inizio.

Che i forti debbano aiutare i deboli è una necessità dei secondi quanto dei primi. Persino nell’algida Olanda si levano voci discordi come quella dell’ex banchiere centrale Nout Wellink che, pronunciandosi per obbligazioni comuni, aggiunge: «Se il Sud cade, il ricco Nord cessa di esistere».

Oltre tutto ciò che viene richiesta è la monetizzazione del debito futuro non di quello pregresso. Non si tratta solo di una questione etico-ideale, ma anche squisitamente economica. Basta dare uno sguardo d’insieme all’economia mondiale, squassata oltre che dalla pandemia che nessuno risparmia, dalle follie protezionistiche di Trump (gli Usa sono i principali importatori dalla Germania), dalla contesa sui dazi e dalle nuove scelte di politica economica assunte dalla Cina (che finora è stato il principale partner commerciale della Germania).

Dove riverserebbe le sue merci, il gigante teutonico se il mercato europeo, già monco per la Brexit, gli si sfarinasse davanti per il crollo economico e istituzionale dovuto ad un cieco egoismo?

Ciò che è irrealizzabile non è quindi un necessario e utile atto di solidarietà, ma un isolazionismo fondato sull’insana convinzione dell’intrinseca superiorità teutonica che tante tragedie ha già portato. A meno che non si voglia dare ragione all’antico detto per cui quos deus perdere vult, dementat prius.

La soluzione per l’immediato è invece a portata di mano. Perfino economisti mainstream, come Giavazzi, Tabellini, Quadrio Curzio avvertono che il Mes è una struttura inadatta a questo scopo, perché richiederebbe una modifica statutaria per evitare condizionalità assurde e per il suo scarso volume di fuoco.

Meglio sarebbe usare la Bei finanziariamente rinforzata che è pur sempre un organismo comunitario. Oppure prevedere più semplicemente l’emissione di obbligazioni dai singoli Stati nazionali garantite dalla totalità dei membri dell’Unione, volti a finanziare il contrasto alla crisi.

Abbiamo ottenuto la sospensione del Patto di stabilità, nuovi interventi della Bce, l’estensione e il finanziamento della Cassa Integrazione. Mica poco, ma non basta. Ce lo dicono numerosi economisti italiani (persino, come Brancaccio ed altri, dalle pagine del Financial Times). Serve un efficace controllo sul mercato dei capitali, misure che spostino il prelievo fiscale sulle rendite per ridurre le ulteriori diseguaglianze createsi, un piano di investimenti europeo dal sanitario, all’istruzione, all’ambiente: un social-green- new deal in cui nessuno resti senza reddito. Ma se non si passa sugli eurobonds tutto questo sarebbe precluso.

ALFONSO GIANNI

da il manifesto.it

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

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Economia e societàFinanza e capitali

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