La distanza tra il discorso politico dei vertici di Teheran e le aspirazioni di una parte sempre più ampia della popolazione iraniana l’hanno data ieri le celebrazioni organizzate per commemorare 400 soldati uccisi nella guerra tra Iran e Iraq, negli otto anni terribili che tra il 1980 e il 1988 uccisero oltre un milione di persone.

La Repubblica islamica era appena nata e covava la speranza di un contagio oltre frontiera. Dall’altra parte c’era il partito Baath, c’era un Saddam Hussein ancora considerato a occidente una pedina valida da rifornire di armi e denaro.

Ieri migliaia di militari e di comuni cittadini hanno preso parte alle cerimonie sparse per il paese, per il regime una sorta di cemento a nascondere le crepe di una struttura governativa che si credeva inamovibile.

Processioni di donne e uomini a lutto, caschetti militari ammassati nei camioncini, resti di militi ignori avvolti nella bandiera e il dolore vero delle famiglie che attendono il ritorno impossibile dei dispersi. Ogni regime autoritario ha nel simbolismo militare la sua migliore narrazione.

Questo deve aver pensato il presidente Ebrahim Raisi che nella commozione nazionalista di massa ha individuato l’occasione ideale per sferzare la rivolta in corso da più di 100 giorni con parole che celano i fatti – terribili – della repressione: «Nessuna pietà» per chi si oppone, gli «ostili» dissidenti in cui la narrativa di stato mescola «ipocriti, monarchici e tutte le correnti anti-rivoluzionarie».

Ovvero chi mette in discussione le basi della rivoluzione khomeinista, 43 anni dopo. Ecco dunque che il nemico viene identificato negli Stati uniti e i loro alleati, la cui «arroganza» è immaginata da Raisi come responsabile dei «recenti disordini». «Tutte le pressioni contro la Repubblica islamica – ha concluso – sono destinati a fallire».

Nessuna apertura, quella necessaria a comprendere la reale natura della rivolta che non è la voglia di occidente, ma di libertà e di giustizia sociale.

Sono queste le aspirazioni concrete, espresse di nuovo in questi giorni da due donne, le due scacchiste Sara Khadem e Atousa Pourkashyan che in un torneo internazionale in Kazakhstan si sono sedute al tavolo senza velo. Consce delle conseguenze, visti i precedenti: alla scalatrice Elnaz Rekabi hanno demolito la casa di famiglia.

E cresce il numero delle vittime: secondo il sito di attivisti Hrana, al 26 dicembre sono almeno 507 gli uccisi. Tra loro 69 minori: l’ultima vittima sarebbe la 12enne Saha Etebari, colpita dal fuoco dei militari a un posto di blocco Bastak il 25 dicembre.

E sono 18.533 gli arrestati nelle 161 città coinvolte nella mobilitazione. Tra loro, un centinaio sono accusati di reati che prevedono la pena di morte in caso di condanna, calcola l’Iran Human Rights, con sede a Oslo.

Di questi, riporta l’ultimo rapporto, la stragrande maggioranza non ha accesso – o ce l’ha molto limitato – alla difesa di un legale. Un modo, disseminare condanne a morte, che nell’idea di Teheran dovrebbe costringere all’autocensura per paura.

Non sembra avere un grande effetto, se non una graduale modifica delle metodologie di dissenso: proteste brevi, diffuse, poco partecipate ma numerose, per ridurre il numero degli arresti attraverso la dispersione forzata dei poliziotti.

Nel braccio della morte sono in 11, dopo le prime due esecuzioni. Tra loro c’è Mohammad Ghodablou: il padre ha fatto appello per il rilascio sui social media dopo che lunedì il sito della magistratura iraniana Mizan Online ha comunicato che la perizia psichiatrica si è conclusa con un «era consapevole della natura del suo crimine». Può essere punito.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

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