Foglie d’erba

Un’epica non è necessario che sia scritta come un racconto omerico, come un seguire ordinato, logico e cronologico, di eventi mitologici o reali che siano. E’ sufficiente che entusiasmi,...
Walt Whitman

Un’epica non è necessario che sia scritta come un racconto omerico, come un seguire ordinato, logico e cronologico, di eventi mitologici o reali che siano.

E’ sufficiente che entusiasmi, che non permetta, pagina dopo pagina, che questo fervore si spenga, ma che rimanga alla stessa soglia, dalla prima all’ultima riga. Solo così, si potrà dire di aver messo nero su bianco davvero qualcosa, appunto, di “epico“.

E’ un qualcosa che si tramanda nei secoli e che diventa il manifesto di una civiltà, un monumento di cultura, di esperienza e di proiezione nel futuro per il popolo che l’ha vissuta in prima persona e per quelli che l’hanno recepita nel corso del tempo. Walt Whitman, probabilmente senza volerlo ed anche senza, così presuntuosamente, saperlo, ha, con le sue “Foglie d’erba (Leaves of Grass)” (Feltrinelli, 2012), posto le basi per uno slancio della letteratura e della poetica americana proprio in questo senso.

La poesia gli appare “meschina” davanti alla modernità, alla costruzione della nuova civiltà che negli Stati Uniti si erige a dominatrice delle coscienze, delle essenze e che dissolve, assolve, impietrisce e sgretola al tempo stesso l’animo delle persone, la vita che si allontana dalla naturalità della sua essenza e diviene altro da sé stessa. E’ una sensazione che richiama ad una elettrizzazione delle percezioni, ad un fare il confronto tra il passato della guerra civile e il presente di un secolo che si avvicina: nuovo, grande e terribile, avrebbe chiosato Gramsci.

Nel domandarsi l’atavica, ancestralissima domanda del cosa mai si sia noi uomini, noi esseri “umani“, eppure sostanzialmente “animali umani” (rispetto agli altri animali che popolano questo pianeta), Whitman rifugge il dover piangersi addosso («Non piagnucolo il piagnucolio»), il riversare questa lamentosa nenia ogni giorno su sé stessi e sugli altri: non cerca nemmeno grandi risposte, consapevole di una insignificatezza dell’esistenza che, tuttavia, assapora nella sua pienezza di emozioni, di sentimenti che non possono essere ricondotti alla mera materialità fisica.

Eppure il corpo, proprio tra le sue righe, implicitamente poiché proprio esplicitamente tutto questo si esprime, diventa oggetto e soggetto di ammirazione, lambisce i canoni di un erotismo sagace, che stuzzica il lettore, che scandalizza quel tanto da porsi domande su altre domande e da creare un circolo tutt’altro che vizioso nel dimensionare mutevolmente, appunto in chiave modernissima, ogni desiderio che nasce in noi, ogni trasporto, ogni emozione che sia, in particolare, dannata dalle religioni, dalle credenze, dalle superstizioni.

Quanto richiama il Leopardi quel «Oggi prima dell’alba sono salito su un colle e ho guardato il cielo / affollato, / E ho detto al mio spirito, / Quando avremo abbracciato quelle orbite e / il piacere e la conoscenza di ogni cosa in esse, saremo piani e / soddisfatti, allora?»? Doppio punto interrogativo.

La verosimiglianza poetica ha qualcosa a che vedere, più che altro, con l’uomo che si getta oltre l’ostacolo della gravità, che trasale dalla nuda terra e che si propone all’universo come domanda di sé stesso, cercando di comprendere almeno un angolo di verità, scoprire un barlume di consapevolezza di tutto quello che avviene.

Non esiste risposta che possa dare pace all’animo del recanatese e nemmeno dello statunitense. Le foglie d’erba, i prati che ne sono la visibile, verdissima composizione armonica, sono lì a prescindere anche da una questione ontologica, da un filosofeggiare sulle sorti dei tanti esseri viventi che vi stanno sopra, proprio come gli esseri dis-umani e proprio, ugualmente, come gli esseri che vi passano intorno, microbici, invisibili. Eppure vivi.

L’America che Whitman canta nella sua inconsapevole epica è un onirismo ancora inespresso, sognato esso stesso: il futuro di una grande nazione democratica che tradirà i suoi valori – come un po’ tutte le nazioni hanno fatto nel corso delle loro storie secolari – più e più volte, provando a diventare un esempio mondiale di uguaglianza conquistata a tratti velocemente, altre volte con una lentezza esasperante.

Emerson lusinga i versi di Whitman, lo incoraggia a proseguire, anche se non ve ne sarebbe un gran bisogno, visto che si è formato la convinzione – peraltro giustissima – di voler dedicare la sua vita proprio alla poesia, alle lettere, alla scrittura. Nella seconda edizione del 1856, oltre ad un affinamento della punteggiatura e ad una rilevazione della propria identità (il che non è un dettaglio trascurabile nella disposizione culturale e poetica dell’autore), se ne aggiungono altri venti.

La narrazione simbiotizza con i fatti, si fa tutt’uno e l’epica si rafforza proprio nella descrizione più dettagliata, soprattutto nel rapporto che Whitman ha con la società che lo circonda. L’intimo racconto che manteneva dentro di sé, ora fuoriesce e si trasfonde nei versi: «Ho letto queste pagine a me stesso, all’aria aperta, le ho controllate / vicino ad alberi, stelle, fiumi». La natura propriamente detta e tale si fonde con una civilizzazione che lo incuriosisce e lo spaventa al tempo stesso.

Davanti all’America che si fa grande e potente, il poeta avverte tutta l’importanza di sé stesso, del suo essere e della sua presenza tra gli altri pur nella fuggevolezza del tempo di una vita: un breve alito di vento, ma pur sempre vagante tra il tutto che si trasforma nella dimensionalità sconosciuta che non fa parte della trigonometria millenaria di una umanità che resta troppe volte imbrigliata nei suoi schematismi, nelle tradizioni e nei giudizi severi sui cambiamenti che sono ineluttabili.

Il poeta legge tra i solchi della storia del mondo, nelle pieghe dei dolori diffusi e di quelli singolari: ogni specificità lo interessa, se ne sente attratto e parte integrante («Lo giuro, in me voglio avere ogni qualità della mia razza»), mettendo sullo stesso piano anima e corpo; ne fa una indistinguibilità essenziale per una conoscenza del presente che annuncia al continente americano un ruolo di primo piano nella storia del futuro, nel racconto che si prospetta.

La poesia, in questo caso, è la forma che Whitman trova fondamentale per esprimere sentimenti ed idee, desideri e pensieri che li contengono e li traducono in canzoni che preludono alle domande inespresse, alle incertezze manifeste e recluse dentro le coscienze che devono tacere per la pubblica decenza, per le virtù dettate da una convenzionalità che condanna l’amore omosessuale, che reprime e punta il dito contro chi non ha colpa. Se non quella di volere bene, di volere e di anelare ad una carezza che sia pervasiva del proprio animo, che non sia solo vista come carnalità.

Ma l’America in cui la schiavitù sta finendo, mentre la guerra civile è una ferita apertissima, non ha molto tempo da dedicare alla profondità delle emozioni collettive: la poesia invece può tradurre tutto questo in un manifesto per l’oggi e per il domani. Le parole restano. Soprattutto quelle scritte se è vero, come è vero, che le tradizioni orali sono ugualmente dure a morire.

Le foglie d’erba sono la metafora della tenerezza unita alla giustizia, al senso profondo di equità che riguarda tanto le menti quanto i corpi. Il fondamento etico della poetica di Whitman consiste proprio in una funzione che sovrasta il semplice pedagogismo che si ridurrebbe, nei versi, ad una retorica dei versi e ad un verseggiare di retorica.

Ciò che il poeta vuole è stabilire un legame intrinseco, quindi già presente in nuce, tra empatia del singolo e della moltitudine, fondata su un rispetto reciproco, sul non togliere, in nessun caso, la dignità all’individuo, a nessun individuo: animale umano o animale non umano che sia.

Attraverso i suoi versi, Whitman cerca di dare la voce a più esseri viventi possibili: dalla natura tutta alla complessità dell’umanesimo e dell’umano in quanto tale. Ogni discriminazione viene lasciata fuori, qui conviene che non entri, perché stonerebbe a tal punto da sentirsi davvero il contrario di sé stessa: discriminata positivamente, ridotta al cumulo di cenere di un’araba fenice che sintetizza soltanto la caducità dell’esistenza dentro la miseria di una umanità uscita dalla sua animalità.

L’ingorgo che si crea è, per il poeta ma pure per l’uomo politico (letteralmente inteso), è l’intersezione, la congiuntura tra differenti sensazioni che da dentro l’oggettività di un mondo iperuranico delle idee diviene, piano piano, sempre più soggettivismo, visione incantevole o tremenda di una quotidianità che tocca vivere in tutte le sue strutturalissime contraddizioni.

Le foglie d’erba somigliano, tutte quante, a sé stesse: un po’ come gli esseri dis-umani, come questi animali che pretendono di elevarsi al di sopra di ogni altro vivente e della natura, straripando di potere nella loro stessa casa. Considerano la nazione e il sogno americano come l’unica via possibile per l’intera umanità proiettata nel futuro. Reprimono la dicotomia tra pulsione democratica ancestrale e voglia imperialista sempre più presente alla fine dell’800 e all’inizio del secolo nuovo.

Whitman coglie tutto questo, accarezzando la natura di cui si circonda: gli serve da rifugio, è fonte di resistenza personale ad un capovolgersi dei fatti, ai racconti che sovrastano le verità, ai pregiudizi che si impongono come morale dominante.

La sua opera poetica è tra le più grandi della letteratura a stelle e strisce perché contiene tutta questa grande coloratissima sequela di differenze evidenti. Impossibili da non riscontrare quando ci si avvicina, e poi ci si immerge definitivamente, nei suoi versi. L’America è in ogni sua pagina. Ma l’America virtuosa e non quella pigra e indolente del capitalismo crescente e sempre più globale. L’America del dovere come elemento di civicità e di civiltà, non come presupposto meramente offensivo.

Quanto sarebbe bella l’America di Walt Whitman oggi, se fosse già esistita ai suoi tempi e se le foglie d’erba avessero colorato un continente troppe volte insudiciato dal potere fine a sé stesso, dalla sete di profitto e di una gloria che la poesia, almeno questa che abbiamo provato a descrivere, proprio non avrebbe potuto ieri e non potrebbe oggi raccontare.

FOGLIE D’ERBA
(La prima edizione del 1855)
WALT WHITMAN
UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI / CLASSICI

Per chi volesse approfondire: tutti i libri di Whitman nelle Librerie “Feltrinelli”

MARCO SFERINI

28 dicembre 2022

foto: particolare della copertina del libro

categorie
la biblioteca

altri articoli