All’uscita dal ministero della Giustizia, in via Arenula a Roma, Roberto Salis è scuro in volto. Sono da poco passate le 18 e i suoi incontri, prima con Tajani alla Farnesina e poi con Nordio, per discutere della situazione di sua figlia Ilaria, detenuta a Budapest ormai da un anno, sono finiti male. «Male? Malissimo. Molto peggio di quanto ci aspettassimo, non vediamo nessuna azione che possa alleviare la situazione di mia figlia. Siamo stati lasciati soli», dice ai cronisti che lo accerchiano.

La richiesta era semplice: una lettera di garanzie da far pervenire al tribunale di Budapest insieme alla richiesta di concessione degli arresti domiciliari in Italia o all’ambasciata italiana di Budapest per la donna che rischia almeno 11 anni di carcere per l’accusa di aver aggredito insieme ad altri tre militanti neonazisti che hanno riportato lesioni guarite in una settimana. Il governo però ha detto no a queste richieste che giudica «irrituali e inopportune».

Nella nota congiunta uscita fuori dai ministeri di Nordio e Tajani si può leggere in perfetto burocratese: «I ministri hanno evidenziato che i principi di sovranità giurisdizionale di uno stato impediscono qualsiasi interferenza sia nella conduzione del processo sia nel mutamento dello status libertatis dell’indagato». E poi: «I ministri hanno altresì rappresentato le ragioni di diritto e di fatto per cui la richiesta di sostituzione della misura cautelare presso l’ambasciata italiana non è possibile».

Altro problema, riferisce Roberto Salis, riguarda il precedente che una lettera all’Ungheria costituirebbe nel momento in cui ci sono circa 2.500 cittadini italiani detenuti all’estero per i più svariati motivi. Il governo, in buona sostanza, ritiene di non potersi attivare per tutti e dunque non comincerà certo a farlo per Ilaria Salis.

Fa niente se la diplomazia, per sua stessa essenza, servirebbe proprio a dirimere questioni che non hanno precedenti, altrimenti basterebbe attenersi alla giurisprudenza internazionale senza bisogno di mediazioni. La verità, molto banalmente, è che il governo italiano non ha la benché minima voglia di mettersi a litigare con il governo ungherese.

«Lo stato italiano non intende fare nulla e ritiene di non voler fornire i documenti che avevamo chiesto per agevolare il lavoro dei nostri avvocati – racconta ancora Roberto Salis -. Sulla nota che avrebbe fornito garanzie sull’applicazione delle misure per i domiciliari in Italia, ritengono che da parte dello Stato italiano sia una excusatio non petita».

L’avvocato Eugenio Losco, pure presente agli incontri, chiarisce infine che di «interventi diplomatici non ce ne saranno perché secondo quanto dice il ministero la magistratura è indipendente. Lo è, speriamo, anche in Ungheria».

Nordio, che evidentemente con l’indipendenza dei magistrati ha da questionare solo in Italia, insiste sul fatto che Ilaria Salis i domiciliari dovrebbe chiederli in Ungheria, anche se lì non ha alcun domicilio e dunque non si saprebbe dove mandarla. Resta in sospeso la questione sulla decisione quadro dell’Ue del 2009 (recepita dall’Italia nel 2016) sul reciproco riconoscimento delle misure di custodia cautelare tra paesi comunitari.

Secondo il governo nel caso di Ilaria Salis non sarebbe applicabile perché si tratterebbe di passare dal carcere di un paese alla detenzione domiciliare in un altro, dunque prima o si ottiene questa misura in Ungheria oppure se ne riparlerà solo dopo l’eventuale condanna. Ieri però a Strasburgo la Commissione ha fatto presente che, almeno asuo parere, questo passaggio sarebbe possibile. Certo servirebbe un passaggio diplomatico che però l’Italia al momento non pare intenzionata a fare.

«Ora ci sarà carcere a oltranza fino a quando il giudice ungherese avrà finito il processo o ci sarà un’altra situazione. Ma in quel carcere lì si può anche morire», aggiunge Roberto Salis. Il governo, ad ogni modo, ha assicurato che continuerà a impegnare per «il rispetto dei diritti» della detenuta italiana. Gli stessi diritti che l’Ungheria sin qui non è riuscita a garantire: dalla terrificante situazione del carcere di Budapest all’ingresso dell’imputata in tribunale con manette, catene e guinzaglio.

MARIO DI VITO

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria