Se un uomo col collo nero incontra un uomo col ginocchio bianco…

La pressione di un ginocchio blu. Di un agente blu. Di un soldato blu. Poco importa se cambiano i tempi dai tempi del Sand Creek: la repressione, come si...

L’agonia e l’omicidio di George Floyd, ripresi dai telefonini, hanno fatto il giro di tutto il mondo attraverso i social

La pressione di un ginocchio blu. Di un agente blu. Di un soldato blu. Poco importa se cambiano i tempi dai tempi del Sand Creek: la repressione, come si usa dire oggi, è resiliente e di adatta molto bene ai tempi. Colpisce sempre discriminatamente i più deboli, gli indifesi; comunque aggredisce quelli che vengono messi nella condizione già di non nuocere.

E’ accanimento, è vilipendio dei diritti civili, se ne infischia di quelli sociali, non fa distinzione tra le minoranze: è l’unico linguaggio di uguaglianza che conosce. Separare soltanto i bianchi dal resto dell’umanità. Non è un caso che sul berretto rosso del poliziotto blu, che ha premuto il suo ginocchio sul collo di George Floyd fino a farlo morire per asfissia, in una foto sui social si veda in bella mostra la scritta: “Make whites great again“, versione razzista del motto sovranista trumpiano “Make America great again“.

Il suprematismo bianco contro nuove pantere nere, nuovi Malcolm X, nuovi Marthin Luther King questa volta uniti nel denunciare i tanti episodi che, proprio perché molteplici, diventano un comportamento consuetudinario da parte della polizia. Per carità! Non ditelo! Non tutti i poliziotti sono così. E’ vero. Ma il potere è così fatto, si muove in questi anfratti, scivola dietro le buone norme costituzionali, travalica i buoni propositi che tutti esprimono pubblicamente e se la prende con chi il potere non lo ha; avrebbe “solamente” dei diritti che sistematicamente, però, vengono calpestati. Letteralmente.

Messi a terra, piegati e immobilizzati: diritti a cui manca l’ossigeno per rimanere in vita. Pressioni di repressione, cianotismi indotti dalla virulenza della violenza ispirata dall’odio razziale, dal disprezzo per quelli che sono considerati “inferiori” e che non meritano lo stesso trattamento di un bianco se fermati per un controllo su denaro falso speso magari senza colpa.

Succede anche se vieni accusato del più innocuo dei reati: il contrabbando di sigarette. Mezza Napoli del dopoguerra avrebbe dovuto essere presa di mira e soffocata come accadde nel 2014 ad Eric Garner, un gigante afroamericano che, a dispetto del suo fisico possente e apparentemente onnipotente, soffre di una forma acuta di asma. Lo dice ai poliziotti che lo placcano al muro e gli impediscono di respirare.

Ma niente da fare. Loro continuano; lui muore. Licenziamento dell’agente maggiormente accusato di aver causato l’omicidio di Garner, processo, assoluzione. E’ una sequela di fatti che si ripete da decenni negli Stati Uniti d’America dove nemmeno l’elezione di Barack Obama alla Presidenza della Repubblica Stellata è servita a rompere la dicotomia razziale, a sgretolarne i presupposti da profondo Sud, tipici del revanchismo da guerra civile, con in aggiunta il marchio del Ku Klux Klan.

La presidenza Trump non ha fatto altro se non rinverdire l’orgoglio di tanta gente che iniziava un poco a vergognarsi di essere discriminatoria, di giudicare le persone sulla base del colore della pelle. Un revisionismo (anti)sociale che è paragonabile a quello (anti)storico italiano sul fascismo: a ritrovare spazi di libertà sono sempre le sfrontatezze e gli scorni tenuti in solaio, in cantina, dentro agli armadi (della vergogna, per l’appunto…).

Rispuntano come malefatte perdonate dai moderni sovranisti che legittimano le marachelle di quattro ragazzi di Salò che “sbagliavano” ma che sono pur sempre italiani; oppure quei birichini del Klan che andavano sparando ai negri nel Mississippi, in Georgia, in Florida o in Texas, che bruciavano abitazioni, chiese e impiccavano giovani e vecchi il cui unico delitto era il voler vivere in pace, da cittadini americani, dopo essere stati portati lì con le rotte schiavistiche dall’Africa nel ‘500 e nel ‘600…

La lotta pacifica del movimento afro-americano si è sviluppata in questi decenni sorretta dalla dimostrazione che l’integrazione era ed è possibile: che bianchi eredi degli anglosassoni o degli irlandesi, ispanici, autoctoni indiani, italiani e la grande parte della popolazione di colore potessero diventare un unico grande Paese sotto la retorica dello splendore dalla fiaccola della Statua della Libertà.

Ma i pregiudizi sono duri a morire perché provengono da tante ancestrali substrati di sedimenti accumulatisi in noi fin da bambini: i film di Clint Eastwood, primo fra tutti lo splendido “Gran Torino“, ce ne hanno parlato con la durezza dei comportamenti privati del filtro della morale cristiana o anche laica che rimanda ai buoni propositi, all’aspirazione all’internazionale della solidarietà umana. Parafrando proprio Eastwood, si potrebbe dire che ancora oggi “…se un uomo col collo nero incontra un uomo col ginocchio bianco…” l’uomo col collo nero è morto. Se l’uomo è un poliziotto e, per giunta, sostiene Trump alle elezioni, allora non c’è proprio alcuna possibilità di scampo.

I pregiudizi vanno mostrati così, come sono, come si replicano e si moltiplicano in interi quartieri, tra bande rivali che si aggregano attraverso una partenogenesi frutto di un bestiale istinto primitivo nutritosi della propaganda neonazista, dei tanti suprematisti bianchi, di mille e mille gruppi di teste rasate e perfino di sedicenti propugnatori del diritto dei re d’Inghilterra a divenire sovrani di una nuova nazione americana liberata dal “fottuto liberalismo comunista di quelli di Washington“.

George Floyd è morto soffocato dal ginocchio di un poliziotto che non si è fermato nemmeno davanti ai telefonini che lo riprendevano, davanti alla gente che lo redarguiva per quello che stava facendo… Nessun suo collega l’ha smosso dalla posizione plastica che rappresenta il bianco che schiaccia il nero, che lo annichilisce nel toglierli l’afflato vitale. Un omicidio. Uno dei tanti. Ma in diretta social: per muovere le coscienze, per farle svegliare dal torpore della continuità del sistema, dato per scontato. Non ci si può permettere l’assuefazione, l’accondiscendenza e il perdono: “Può succedere…“, “Capita…“, “Accade…“, “Non è sempre così…“, “Una testa calda…“, “Una mela marcia tra tante buone…“.

Frasi vuote, pregne soltanto di una banalità del male che assume le fattezze dell’alibi da trovare per giustificare la propria appartenenza alla stessa specie del poliziotto dal cappello: “Make whites great again“, senza troppa vergogna in fondo. Invece la vergogna è il primo sentimento che tutti dovremmo provare, americani o meno, nell’essere uguali a tutti coloro che ogni giorno nel mondo seguono i dettami del potere e si nutrono della prepotenza che ne deriva pensando di aggiungere altra supremazia a quella che già si sono dati in quanto specie superiore rispetto a tutte le altre viventi sul pianeta.

I passi da fare sono tanti, lunghi, ben distesi. E’ un cammino lungo e ci vorranno forse migliaia di anni: ma prima o poi, se continuerà ad esistere un movimento umano contro la discriminazione razziale e contro ogni ingiustizia tra noi esseri della stessa specie, allora forse un giorno ci accorgeremo anche che non abbiamo alcun diritto alla superiorità su altre specie. Quelle che consideriamo genericamente “animali“: per cui gli esseri che abitano su questo pianeta sono dagli umani divisi in due grandi categorie. Da una parte ci sono tutti quelli che umani non sono (visto che gli umani sono differenti dagli “animali” per una infinitesimale differenza nel DNA); dall’altra ci sono solo gli umani che sono animali ma che si reputano “proprietari” del pianeta in cui tutti vivono.

Per arrivare a questa condivisa consapevolezza di ingiustizia tra specie si dovrà prima comprendere che il tipo di regime economico che domina nel mondo perpetua le differenze di classe che, a seguito dei corsi e dei ricorsi storici, destina ai bianchi il potere politico e ai neri la sudditanza. Solo perché provengono da un continente colonizzato da cosiddette civiltà che si sono sviluppate prima di altre.

Il tempo dà diritti che sembrano inalienabili. Non solo il tempo della Storia ma pure quello di cinque soli, brevi minuti tramite cui il ginocchio di un bianco può spezzare la carotide di un uomo di colore…

MARCO SFERINI

28 maggio 2020

foto: screenshot tv

categorie
Marco Sferini

altri articoli