Quando eravamo i padroni del mondo. Roma: l’impero infinito

Confesso un pregiudizio: quello nei confronti dei libri appena arrivati sugli scaffali, freschi di stampa, editi da pochissimi giorni come da altrettanto pochi mesi. Mi accosto sempre con circospezione...

Confesso un pregiudizio: quello nei confronti dei libri appena arrivati sugli scaffali, freschi di stampa, editi da pochissimi giorni come da altrettanto pochi mesi.

Mi accosto sempre con circospezione perché, questo è quello che almeno credo io e che invito me stesso a continuare a credere, ritengo che, non avendo ancora superato la prova della lettura diffusa, prima ancora che la mia, debbano in un certo senso avere una specie di “battesimo del fuoco” che li aggiudichi come “leggibili“.

Per carità di patria! Ogni libro è degno di essere letto, non fosse altro che come contributo dato da qualcuno alla letteratura anche sciapa e derelittamente banale che invade spesso le librerie: tutti scrivono, me compreso, ma non tutti scrivono poi cose che interessano per davvero.

Ma, se anche si scrivesse per civetteria o per mera, deprimente ineguagliabile voglia di guadagno (non è il caso di chi state leggendo), un libro merita sempre di essere letto.

Tanta lunga e insulsa premessa è servita per dire questo: durante le festività di fine e inizio anno si assiste al fenomeno dell’invasione degli ultimi arrivi, dei testi appena sfornati e di un accresciuto numero di lettori che, probabilmente, per la prima volta prende un vero libro in mano per seguire una moda, per curiosità spicciola, per qualcosa di diverso e di più sostanzioso che può essere invece il desiderio di approfondire un argomento.

Non sono tanti i divulgatori moderni che sanno comunicare il difficile facilmente e che sanno rendere con grande efficacia argomenti come quelli storici e filosofici, sociologici o politici e, perché no, a volte anche economici e finanziari con una linearità di espressioni che cattura la tiepida attenzione di un lettore in potenza che diviene, nei fatti, un inseparabile amico del testo che ha tra le mani.

Tra quelli nazionalpopolari, moderni e, al tempo stesso, pienamente addentro il mondo tanto della ricerca storica quanto dell’informazione, ci sono Alessandro Barbero e Aldo Cazzullo.

Del professore torinese abbiamo già trattato un testo su Federico il Grande di Prussia. Del giornalista, anch’egli piemontese, parliamo invece in questa recensione, perché l’ultimo libro che ha scritto è un utile strumento proprio di divulgazione massiva di un tempo storico su cui si inanellano troppe fantasie, troppi equivoci legati anche ad una propaganda politica che ha distorto i nessi e connessi delle cause e degli effetti.

Quando eravamo i padroni del mondo. Roma, l’impero infinito” (edizioni HarperCollins Italia) è una seducente iperbole che giganteggia tra passato e presente, che si compone di altrettanti confronti – incontri ed anche scontri tra simbologie, aneddoti, meticolose ricostruzioni e raffronti tra un mondo che, da duemila anni a questa parte, ha mantenuto le caratteristiche del fenomeno epocale che si riflette nella moderna globalizzazione tanto delle civiltà quanto dei mercati.

A cominciare dalle carriere dei grandi uomini politici romani, non è difficile stabilire un nesso tra quanto avveniva nell’Urbe ancora repubblicana e quanto sarebbe poi, nel corso dei secoli, avvenuto nella formazione dei nuovi ceti di potere, nella conformazione propria di Stati che si sarebbero detti eredi medesimi del grande impero che univa popoli tanto differenti, resi cittadini con diritti e doveri sotto lo Ius e sotto le tradizioni mutuate dall’inizio dell’occidentalismo europeo nella Grecia classica.

La complessità dello Stato romano, ancora di più dopo la fondazione del principato con Augusto, è davvero oggetto di una indagine che, per molti aspetti, induce ad un raffronto con l’oggi, con società che noi stessi definiamo appunto tali: complesse e, oltremodo, complicate.

L’estensione del mondo fondato dai discendenti di Romolo e Remo è divenuta tale da esigere che questa fitta rete di rapporti interpersonali e con tutti gli uffici preposti all’amministrazione della res publica si reggesse non sul consenso esclusivo del principe, ma sulla dualità tra lui e il Senato.

Aldo Cazzullo insiste molto sulla figura augustea che – confesso anche questo – esercita pure su me un tremendo fascino da sempre, proprio per le contraddizioni esplicite che non si perita di nascondere e che, invece, nella camaleonticità del suo essere resilientissima per i tempi in cui si trovava, mostra in tutta la sua sconcertante evidenza.

Una insistenza necessaria, perché la grandezza di Roma e la padronanza universale del mondo di allora è figlia tanto dell’espansionismo nel Mediterraneo al tempo delle Guerre puniche quanto di quelle civili, ma soprattutto è diretta discendente della lotta di potere del secondo triumvirato e del prevalere di Ottaviano su Antonio e Lepido.

Come oggi, anche allora, il problema del trasferimento del potere era uno degli assilli di chi si trovava a guidare lo Stato romano, soprattutto in momenti di crisi, di turbolenze ai confini, di pressioni interne che scatenavano quelle fazioni che, come aveva dimostrato la troppo generosa magnanimità di Cesare, non erano disposte ad accettare il perdono come sigla di un nuovo patto col potere stesso, ma che traevano dalla debolezza degli avversari nuova linfa per cercare di sopravanzare.

La lotta interna al patriziato e alle alte gerarchie della Repubblica prima e dell’Impero poi, non può non ricordarci ciò che accade ai giorni nostri: il richiamo dei populismi modernissimi alla casta da abbattere, era un po’ simile alla lotta di Cesare contro i nobili che avevano corrotto l’originaria Roma, riportandola quasi allo stato primitivo degli ultimi re etruschi, per l’appunto cacciati dall’Urbe.

Oggi, di quella storia, noi abbiamo mutuato moltissimo: dai nomi stessi che diamo a determinati eventi storici (parliamo ad esempio di cesarismo, di cesaropapismo…) fino al diritto che si ispira ai princìpi fondanti di quello romano.

Tra le pietre angolari della Legge vale sempre l’antico adagio: «In dubio pro reo». Roma, dunque, rivive in ogni epoca della civiltà occidentale: dalla fondazione dell’impero carolingio che muta in “sacro” e, appunto, “romano” a tutto ciò che ci ha tramandato nella quotidianità spicciola dei giorni di ognuno e di tutti.

Aldo Cazzullo non manca di citare, ad esempio, la calendarizzazione del tempo, i nomi dei giorni, dei mesi stessi: l’agosto che era il mese di Augusto; il Ferragosto che altro non era se non la proclamazione del “riposo” concesso dall’imperatore stesso, le “feriae” accompagnate dal genitivo singolare del nome attribuitogli come Padre della Patria.

Quindi, l’eredità storica dell’Urbe vive anche nei monumenti sparsi dall’Asia Minore alla Gran Bretagna, dall’Africa alle terre della vecchia Gallia: ma in particolar modo rivive nel modo d’essere delle nostre società.

Su di un punto si può aprire un interessante dibattito: il Cristianesimo e l’Impero. Chi conquistò chi?

Fu Roma ad inglobare la nuova religione e a farne uno strumento di ulteriore controllo sociale e politico, oppure furono le comunità cristiane, organizzatesi secondo una gerarchia che andava via via sviluppandosi e radicandosi un po’ ovunque, a conquistare l’Impero? La risposta meno lontana dall’indagine storica non può che lasciare il beneficio del dubbio se viene posta in questa diametralmente opposta sfida tra i due mondi che si incontrarono.

Ma non c’è invece dubbio sul fatto che i romani, che erano da sempre stati piuttosto tolleranti nei confronti dei tanti culti che abitavano i vasti territori da loro assoggettati, quando fece la comparsa sulla scena della Storia il Cristianesimo, gli furono immediatamente ostili.

La forza con cui il monoteismo entra nella società romana è uno squarcio nella tradizione che unisce il culto per gli dei classici con quello per la divinità dell’imperatore.

I cristiani si rifiutano di offrire sacrifici al dio terreno che governa il mondo, pur seguendo il precetto di “dare a Cesare ciò che è di Cesare” e traducendo questo precetto evangelico con l’atto di pagare le tasse, obbedire alle leggi ma non lo accettano come dio. La trattazione che Cazzullo fa del fenomeno cristiano, tanto quanto nuovo culto quanto nuova, gigantesca riforma etico-socio-politica che si impone nell’Impero, è ricca di minuziose descrizioni e induce ad una riflessione approfondita.

Da Costantino a Teodosio, la trasformazione della complessità sociale dell’Impero è anche introduzione del potere religioso nella sfera dello Stato: il pontefice massimo diviene così il custode del nuovo culto, il preservatore della verità divina che si trasferisce dalla figura “laica” del sovrano, a cui tutti dovevano obbedienza non meno che ai decreti del Senato, al clero che si va formando nelle province, la cui divisione amministrativa ora conta anche le diocesi.

Roma cristiana, dunque, è un’altra eredità che consente quel parallelismo con i secoli e i millenni seguenti che, a sua volta, fa intitolare il libro con un chiaro riferimento ad un passato di grandezza che ha ispirato tutti i popoli europei, mediorientali e africani per molto, molto tempo. Non c’è nostalgia in tutto questo, nemmeno rimpianto.

Chi ritenesse il libro di Cazzullo una operazione fatta in questo senso, rimarrebbe giustamente (e necessariamente) deluso dalla sua lettura. Al tempo stesso, questo testo è un ottimo manuale che riassume la cronologia della storia romana, stabilisce quei parallelismi con l’odiernità, di cui si diceva all’inizio, ma lo fa con l’intendo di provare a stimolare i collegamenti che sovente vi sono e che passano inosservati tra l’ieri e l’oggi.

E’ una redarguizione benevola nei confronti di un superficiale apprendimento dei fatti storici su basi meramente nozionistiche.

Spesso, per comprendere meglio ciò che oggi ci accade, per conoscere davvero il “da dove veniamo“, è necessario superare i confini del metodo storico propriamente detto e praticato, mettendo in essere quelle iperboli che sono azzardi e intuizioni nello stesso tempo.

La domanda non finale, ma certamente evidente che viene fuori dalle pagine del libro, è questa: quanto della romanità c’è ancora nella nostra quotidianità? Quanto è rimasto della cultura, della religione, dell’arte, dell’etica, dell’estetica, delle tradizioni, della complessità di quel mondo nel nostro vivere oggi, a duemila anni di distanza, in una società che consideriamo altamente evoluta?

Aldo Cazzullo ci trasmette questa lezione: qualcosa del passato rimane sempre; spesso e volentieri molto di più di ciò che riteniamo possa davvero essersi tramandato per giungere fino a noi. Leggi, simboli (come l’aquila imperiale che è uno degli emblemi dell’impero più moderno che vi sia, gli Stati Uniti d’America), l’origine di moltissime delle parole che utilizziamo, fanno di noi, se non proprio degli eredi delle “romane genti“, quanto meno dei custodi.

Tra custodire e preservare per amore della conoscenza, dell’arte, della cultura e fare di tutto ciò dell’insopportabile retorica tradizionalistico-nazionalista c’è davvero un abisso. Un crepaccio in cui si inciampa per ignoranza, per pregiudizio, perché si acquisisce soltanto la superficie degli eventi, manipolandoli a piacere.

Tanto più utile, quindi, è il lavoro di storici come Barbero e di giornalisti della Storia come Cazzullo che indagano tra le pieghe della retorica plurimillenaria e ne provano a svelare le imbarazzanti contraddizioni.

QUANDO ERAVAMO I PADRONI DEL MONDO. ROMA: L’IMPERO INFINITO
ALDO CAZZULLO
HARPERCOLLINS ITALIA
€ 10,99

MARCO SFERINI

3 gennaio 2024

foto: screenshot


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