Punto tre: la sinistra senza voglia di “classe”

Ad ogni tornata elettorale che si conclude tocca sempre fare qualche bilancio che comprende necessariamente una analisi sia dei dati in cifre assolute che in percentuali. Si osservano nel...

Ad ogni tornata elettorale che si conclude tocca sempre fare qualche bilancio che comprende necessariamente una analisi sia dei dati in cifre assolute che in percentuali. Si osservano nel loro insieme e per singole porzioni di territorio.
Essendo elezioni amministrative, quelle appena trascorse, la porzionalità è d’obbligo e influenza molto la valutazione complessiva che tocca comunque dare. Proverò ad esprimere tre concetti soltanto.
Il primo riguarda il movimento grillino: se osserviamo le cifre nude e crude, cresce ovunque, fa balzi da gigante a Roma e Torino, ma rimane poi ininfluente per la fase di ballottaggio nel comune di Milano. Raccoglie poco a Cagliari e, a volte, come a Savona dove supera il PD e diventa il primo partito cittadino, non riesce ad andare al secondo turno per via dell’effetto di coalizione di centrodestra da un lato e centro(sinistra) dall’altro.
Il carattere isolazionista e specialistico, di una politica fatta solitariamente per dimostrare la differenza che intercorre tra l’M5S e tutti gli altri soggetti politici paga sempre in termini di contrapposizione ma risente degli effetti della legge elettorale e delle strane combinazioni locali che si vengono a creare in particolari elezioni come quelle comunali.
Ma, detto questo, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio contribuisce in maniera determinante a segnare il declino del maggior partito di governo e impedisce alla sinistra di alternativa di affermarsi come potrebbe e dovrebbe. Almeno lo fa in una certa misura, perché non è certo attribuibile solo alla sua presenza la crisi di consensi che forze come Sel – Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista e Partito Comunista d’Italia hanno ormai su un territorio omogeneamente nazionale.
Di questo aspetto, però, parlerò tra poco. Con il movimento grillino si afferma in Italia un nuovo tipo di destra, un movimento che alcuni definiscono giustamente “interclassista” e che io preferisco includere in una categoria forse meno attuale ma che dà il senso di un legame tra un esercizio autoritario del potere mascherato da partecipazione popolare democratica e internettiana (addirittura…): il peronismo. Diciamo un peronismo in salsa italiana, magari simile a quell’esperimento fatto da Guglielmo Giannini ai tempi della Costituente e delle prime elezioni repubblicane quando si presentava il simbolo dell’Uomo Qualunque.
Il movimento 5 Stelle raccoglie nei suoi vasti consensi settori sociali tra i più diversi e li unisce in nome dell’avversione al “regime dei partiti”. E’ un’espressione che sento sempre più usare dai grillini e che si affianca a tanti altri anatemi di questa risma come quello, veramente inflazionato e ormai privo di valore, della contrarietà alla famigerata “casta”.
Molto probabilmente, dunque, il movimento di Grillo andrà a governare la capitale d’Italia. Sarà una prova durissima, quasi un pre-esame di futuro governo del Paese intero. Vedremo dalla gestione di Roma da parte di Virginia Raggi e dei suoi quali saranno gli elementi di cambiamento, perché sono certo che ve ne saranno. Alcuni in meglio, altri non condivisibili. Ma ve ne saranno.
Se dovesse, invece, prevalere il Partito democratico, Roma abbraccerà un gattopardismo dal sapore antico e dal profumo nuovo, ma resterà sempre immobile in logiche di potere che non si sposteranno molto, vista anche la vicinanza politica tra il futuro sindaco del PD a Renzi e anche quella dei rispettivi palazzi: Campidoglio e Palazzo Chigi, tutto sommato, non sono così lontani.
Il secondo punto su cui voglio soffermarmi è proprio il partito di Renzi e Renzi medesimo. Non c’è dubbio sulla sconfitta pesante che registra ovunque anche se conquista un migliaio di comuni e va al ballottaggio nelle più grandi città della penisola. Qui, se osserviamo i dati numerici e non le percentuali, possiamo assistere alla vera e propria dipartita dalla cerchia dell’elettorato democratico di un elettore su quattro. Il 25% dei consensi che aveva il partito renziano vola via nell’astensionismo, nel voto di protesta e non viene intercettato dalla sinistra di alternativa se non in minima parte.
Fa eccezione Napoli con Luigi De Magistris, fa eccezione Cagliari con Zedda. Ma sono, appunto, casi a parte e provenienti da una storia politica ormai consolidata e che ripete schemi che hanno avuto successo e che lo confermano pienamente.
Fin qui il confronto con le elezioni amministrative del 2011. Se però si fa il confronto con le elezioni politiche del 2013 e con quelle europee, il Partito democratico subisce veramente una debacle: a Napoli c’è la sconfitta più sonora con la perdita di 81.000 voti; a Roma la perdita rispetto alle europee è di 257.000 voti. Una voragine, a pensarci bene. Più limitati i danni a Torino, Milano e Bologna. Ma Renzi lo deve ammettere: ha perso e la crisi del Partito democratico è frutto delle sue politiche liberiste, del saccheggio economico della parte più debole e povera del Paese a vantaggio di tutele crescenti per i grandi capitali e l’imprenditoria che deve essere competitiva con i mercati europei e transatlantici.
La distruzione sistematica di tutte le garanzie sociali porta anche i più affezionati elettori a voltarti le spalle e a fartela pagare con un voto magari di protesta, privo di qualunque valore ideologico, che diventa un voto “mobile”, intercettabile solo se modifichi il tuo agire come governo del Paese.
Questa del PD renziano è la seconda destra di una Italia che, nel suo apparato dirigente, trova le fondamenta che un tempo aveva Forza Italia durante tutto il ventennio berlusconiano.
Illudersi di arginare il pericolo rappresentato dalla muscolarità verbale e dall’odio xenofobo e razzista della destra, peraltro in questa fase molto divisa nei più grandi comuni, votando per i candidati renziani è una scelta che non ne favorisce una migliore, perché consegna ancora un elemento di forza nelle mani del presidente del Consiglio che non attende altra occasione se non quella dei ballottaggi per affermare il giorno dopo che, comunque, la gente ha compreso dove risiede chi vuole difendere la democrazia.
E state certi che userà questo argomento per proporre il voto favorevole al referendum costituzionale di ottobre, viziando ancora una volta le ragioni vere della sua controriforma che sovverte la Repubblica, che la disciplina secondo un baricentro tutto spostato sulla volontà governativa e non più su quella parlamentare, espressione della delega popolare.
Per questo, votare per i candidati del PD al ballottaggio è come cominciare a votare SI’ al referendum di ottobre, mettendo un mattoncino sulla strada della destrutturazione della democrazia costituzionale, dell’impianto di difesa dell’equipollenza dei poteri e di salvaguardia delle garanzie sociali e civili che da 70 anni a questa parte, nel bene e nel male, tra chiari e scuri, comunque ci hanno consentito di provare a far convivere tutte le opinioni, tutte le libertà formali anche laddove qualcuno, rifiutandole, tentava colpi di stato più o meno nascosti.
Il terzo punto, ultimo ma non ultimo, riguarda la sinistra di alternativa. Lascio le note dolenti di casa nostra proprio in queste ultime righe perché vorrei che la riflessione si nutrisse delle due precedenti che ho fatto.
Mi sembra evidente che ciò che manca è sì quella famosa “domanda di sinistra” che vado scrivendo e cercando da molto, troppo tempo. Ma mi sembra anche evidente che se non creiamo (concedetemi il linguaggio mercantilista) il prodotto che susciti la domanda, allora la domanda di per sé non può non soltanto non ricrearsi ma addirittura non può proprio nascere.
Non è possibile pensare la ricostruzione di una sinistra di alternativa in mezzo ad almeno tre, quattro progetti differenti: Rifondazione Comunista e Possibile spingono (secondo me più che legittimamente e giustamente) per la formazione di un “quarto polo” dove convivano le varie realtà oggi esistenti e che sia omogeneo su tutto il territorio nazionale e cominci a presentarsi con una identità politica riconosciuta nelle lotte e con un simbolo sempre uguale in tutte le tornate elettorali; Sel – Sinistra Italiana viaggia verso la costituente del suo nuovo partito genericamente “di sinistra”; le residualità del Partito dei Comunisti Italiani e qualche transfugo dal PRC pensano addirittura di poter rifondare oggi nel nome, nel simbolo e magari nella proiezione dell’immediato futuro ciò che storicamente è stato il Partito Comunista Italiano. Poi esistono altre ancora più microbiche realtà che proseguono in camminate solitarie, presuntuose e per niente disposte al confronto. Per questo, penso, non vadano considerate come interlocutrici attendibili e sincere.
Stando alle tre strade elencate, è evidente che quella del “quarto polo” è l’unica che garantisce a tutti il mantenimento della reciproca autonomia e, al contempo, federa, unisce, mette in connessione e contatto le differenze e prova a farne tesoro per individuare un minimo comune denominatore su cui esprimere un messaggio chiaro di rinnovamento del Paese sulla base di una politica di classe, quindi necessariamente differente da tutte quelle tentate fino ad oggi.
Dobbiamo essere molto franchi e sinceri: non si può costruire una sinistra di alternativa se si è continuamente tentati dal governismo e dalle sirene che ogni tanto il PD mette in esecuzione per dividere chi può rappresentare magari un domani un elemento di disturbo in quella fascia di popolazione che crede ancora che il partito renziano sia “la sinistra”.
Dobbiamo rompere questo incantesimo malefico e proclamarci “sinistra di classe” e “sinistra per una classe”. E l’unica classe di nostro riferimento è quella degli sfruttati. Parola brutta? Vecchia? Incomprensibile? Non attira, non porta voti? Può darsi, ma è la realtà: perché gli sfruttati esistono e potete anche chiamarli in altri termini, magari in lingua inglese che “fa più figo”, ma ci sono. Ci sono e non sanno di esserlo e si fermano alla protesta espressa dai grillini e non sognano di oltrepassare il piccolo confine della maledizione della politica privatistica fatta con i soldi pubblici, ma si agitano solo al sentire la parola “onestà” che fa così moda proprio perché è per troppo tempo stata messa nel cassetto dell’oblio.
Le percentuali imbarazzanti di Airaudo a Torino, di Rizzo a Milano e di Fassina a Roma (tralasciamo, come dicevo prima, De Magistris e Zedda) non ci dicono che non si può produrre nulla di sensibile, di tangibile e riconoscibile senza un progetto nazionale? Non vi comunicano questo? A me lo comunicano e penso che si debba insistere nella proposta di Rifondazione Comunista per l’avvio della costituente di un “quarto polo”. Non vedo, sul piano organizzativo, nulla di meglio per ricominciare a fare politica nel senso più vero del termine che non è quello meramente elettorale, ma quello sociale.

MARCO SFERINI

7 giugno 2016

 foto tratta da Pixabay

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