Pensiero e azione del Risorgimento

La straordinaria complessità del Risorgimento italiano è al centro dell’accurato studio di Luigi Salvatorelli “Pensiero e azione del Risorgimento” (Einaudi, prima edizione “Saggi“, 1943 – Prima edizione “PBE“, 1963)....

La straordinaria complessità del Risorgimento italiano è al centro dell’accurato studio di Luigi Salvatorelli “Pensiero e azione del Risorgimento” (Einaudi, prima edizione “Saggi“, 1943 – Prima edizione “PBE“, 1963). Il lettore potrà rendersi conto fino dalle prime parole che siamo davanti ad un testo che ha fatto la storia dell’analisi storico-politica e anche sociologica sui temi che il percorso di unità nazionale ha implicitamente imposto all’attenzione tanto degli studiosi quanto della più comune pubblica opinione.

Il titolo, in questi casi, viene davvero ad essere perfettamente esaustivo delle intenzioni dell’autore; anzi, potremmo dire che è esattamente la descrizione precisa e puntuale della volontà che ha mosso Salvatorelli nel tentare, nell’ormai lontano 1943, una ricostruzione puntuale e circostanziata tanto degli avvenimenti ottocenteschi che condussero alla nascita del Regno d’Italia, quanto dei molti ricami che vi sono stati fatti sopra e che, col passare dei decenni, oggi costituiscono l’insieme dell’esegesi accademica e critica del Risorgimento italiano.

Salvatorelli ci conduce alla comprensione del sottobosco di avvenimenti che determinarono le azioni sia dei governi pre-unitari sia dei moti delle associazioni segrete che si andavano costituendo appena dopo la fine dell’impero napoleonico, immediatamente a ridosso del Congresso di Vienna e della Restaurazione operata dalle potenze vincitrici sulla Francia che aveva osato sfidare l’intera Europa.

Per questo, per poter leggere compiutamente il testo dello storico azionista e antifascista della prima ora, serve quanto meno una preparazione di base, una conoscenza tuttavia non superficiale di quello che avvenne dal 1815 in avanti in Italia ed in Europa.

Non ci si riferisce ad una mera cronologia scolastica che, spesso, lascia davvero nelle menti delle ragazze e dei ragazzi ben poco se non vaghi ricordi di lotte e battaglie tra popoli e Stati. Qui occorre avere un retroterra culturale di un certo spessore per poter affrontare la lettura di un libro che può apparire innocuo a prima vista ma che, invece, è un lavoro davvero molto accurato, da non sottovalutare affatto.

I rimandi agli autori che si sono occupati degli eventi risorgimentali sono tanti e si intersecano, si compenetrano e vengono richiamati con costanza a suffragio delle convinzioni che Salvatorelli ha maturato nel corso della sua lunga carriera di insegnante, di storico e pure di giornalista.

Non solo le varie fasi del Risorgimento vengono prese in analisi seguendo un ordine temporale perfettamente lineare, senza fughe nel passato o anticipazioni imprudenti e improvvide, ma ogni singolo capitolo è sostenuto, appunto, dal confronto che l’autore fa con tutte le correnti di studio che si sono occupate di quel dato momento, di una figura singola o di un dato evento che ha finito con l’essere una tappa fondamentale nello svolgersi degli accadimenti.

Scopriamo, in questo modo, che i sessant’anni trascorsi dalla fine dell’Empereur alla posticcia costituzione dello Stato unitario sono suddivisibili in passaggi logici e cronologici a prima vista non chiaramente visibili. Compito dello storico, in questo caso, è far emergere le “tendenze” del momento, chiamiamole pure “le mode” politiche che dominano la scena, gli influssi culturali esterni ai confini naturali di una Italia che, per la prima volta dopo secoli e secoli tenta di scrollarsi da addosso il dominio straniero e farsi popolo, nazione, Stato e magari repubblica unitaria.

E’ proprio così che prende corpo l’indagine storiografica e si sublima nel dare un nome a processi che difficilmente sarebbero riconoscibili in quanto tali.

Questo lo si può notare molto bene quando Salvatorelli ci descrive l'”antinomia” del giacobinismo italiano a cavallo degli anni in cui si affermavano in Italia le “repubbliche sorelle” dipendenti da quella francese, lo fa mettendo in relazione la dicotomia tra il vento liberatorio rivoluzionario di una Francia, che ha già bandito il canto della “Marsigliese” e chiuso i club del partito di Robespierre e Saint-Just, con le aspettative tradite di una “rivoluzione italiana” che si ferma sul limitare di una imposizione democratica piuttosto che su una piena affermazione del trittico “liberté, égalité, fraternité“.

E questa delusione per la mancata spinta propulsiva ad una formazione di un sentimento nazionale, sorretto da un repubblicanesimo capace di federare quelli che vengono vissuti come i “popoli italiani“, stranieri fra loro stessi, incapaci di pensarsi e percepirsi manzonianamente come “fratelli su libero suol“, che permette allo storico di mettere dei punti fermi: il Risorgimento non inizia con le date classiche che, un po’ semplicisticamente e troppo sinteticamente, ci vengono insegnate a scuola, ossia i moti del 1820-21.

Siccome la Restaurazione per Salvatorelli è, in Italia, un vero e proprio “antirisorgimento” che nega la dissoluzione dei regimi antecedenti la Rivoluzione francese e la sua decolorazione girondina prima e direttoriale poi, se ne deduce che il Risorgimento inizia almeno a partire da questi capovolgimenti statuali e dalla messa in discussione degli ordini costituiti secolarmente e millenariamente.

La paleoliticità ancronistica di conformazioni istituzionali tanto diverse tra loro (pensiamo soltanto al paragone fra lo Stato della Chiesa e la Serenissima Repubblica di Venezia) non ritornerà più ai livelli precedenti: nessun regno e nessun sovrano potranno più pensarsi ed essere assoluti dopo il 1815, ma la tentazione di una unità nazionale che prescinda dalla socialità e dal protagonismo popolare sono una delle culture che ispirano tentativi di trasformazione politica in Italia per tutto l’Ottocento.

Salvatorelli mette l’accento sulla dialettica che imperversa aspramente nel dibattito italiano sui modi, sui tempi e sul risultato finale dell’azione rivoluzionaria per la costituzione dello Stato nazionale. Il liberalismo carbonaro si scontra con la riorganizzazione politica mazziniana; il neoguelfismo giobertiano confligge con il partito moderato cavouriano che è laico ma non anticlericale, mentre il partito azionista si correntizza, si scinde e rischia l’irrilevanza ad un certo punto sotto il peso della presa in carico delle guerre di liberazione dall’austriaco da parte del Piemonte.

Saranno proprio i periodi storici del Risorgimento, in parte indipendenti dalle volontà dei singoli attori, a stabilire una sorta di equilibrio tra le diversità più eclatanti e a permettere, grazie ad una incredibile eterogenesi dei fini immediati e ad un obiettivo sostanzialmente omogeneo (l’unità del Paese), di arrivare alle porte di un bizzarro 1860, dove a scompaginare le carte ci pensa la straordinaria epopea garibaldina.

Mentre Cavour – spiega Salvatorelli con grande acume – punta tutto su una idea dell’Italia del Nord unita ad un resto del Paese ancora diviso in due, tre regni federati tra loro (ma non sotto l’egida pontificia come auspicava invece Gioberti), Mazzini, dopo aver mostrato alla Penisola, all’Europa e al mondo il suo ideale di Stato con la grande e breve parentesi della Repubblica Romana del 1849, punta tutto su una liberazione dall’idea e dalla pratica monarchica.

L’Italia che vuole il genovese è prima di tutto un popolo unito, prima ancora di un territorio unito. E’ ovvio che l’uno e l’altro non sono scindibili, sono consequenziali; anzi, si possono realizzare soltanto se vi è una simbiosi tra piano etnografico e su quello più prettamente politico-istituzionale. La mai nata “repubblica italiana” di Mazzini resta un sogno perché i tempi non sono maturi per una rivoluzione popolare che desideri, voglia e pretenda di essere nazionale.

Salvatorelli smonta qualunque mitizzazione del Risorgimento, lo spoglia di ogni manto agiografico e lo storicizza: un bagno di realtà che a molti non è piaciuto ma che ci consente di fare i conti con una storia non può essere “perfetta” perché necessariamente romanzata e vissuta come predestinazione quasi divina dei destini italici.

Saranno il mussolinismo prima, e il fascismo poi, ad imporre una accelerazione in questo senso, piegando la nazione ad una forzata italianizzazione degli italiani stessi, senza permettere alle particolarità locali e alle differenze sedimentasi in millenni di potersi confrontare e di dare quindi una possibilità allo scambio socio-culturale, politico, morale e civile per fondare quel popolo che Mazzini aveva pensato come la garanzia migliore del funzionamento della repubblica.

Dal pensiero e dall’azione del Risorgimento possiamo trarre molte lezioni per l’Italia imperfetta di oggi e magari farne un Paese migliore, avvicinandoci sempre di più al rigore morale mazziniano e allo spontaneismo eclettico garibaldino, senza pregiudizialmente tralasciare ogni ispirazione politica votata alla realizzazione di una condivisione di esperienze, di bisogni e di beni. L’Italia come comunità dovrebbe avere questo significato: essere esattamente un “bene comune“.

PENSIERO E AZIONE DEL RISORGIMENTO
LUIGI SALVATORELLI
EINAUDI
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MARCO SFERINI

11 maggio 2022

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