La situazione della classe operaia in Inghilterra

Appena ventenne, a metà tra la condizione agiata di buona famiglia della borghesia imprenditoriale e di giovane rivoluzionario in erba, Friedrich Engels si insinua tra le zone più malfamate,...

Appena ventenne, a metà tra la condizione agiata di buona famiglia della borghesia imprenditoriale e di giovane rivoluzionario in erba, Friedrich Engels si insinua tra le zone più malfamate, povere, reiette e recondite delle città di un’Inghilterra che è la campionessa del moderno capitalismo emergente in tutta Europa, sempre più spinta verso un colonialismo che forma i grandi imperi mondiali, che dà praticamente avvio alla globalizzazione per come l’avremmo conosciuta nel XX secolo.

La situazione della classe operaia in Inghilterra” (Feltrinelli, 2021), è un vero e proprio viaggio tridimensionale nella indigentissima miseria degli anni ’40 dell’Ottocento. I tratti di chiaroscuro che vengono alla mente, che si stagliano nella visione implicita che coinvolge il lettore attraverso la meticolosa descrizione di ogni momento della giornata di un operaio, di una madre di famiglia, dei fanciulli e dei bambini, degli anziani e dei malati, somigliano tantissimo a quell’affresco di cenci e di meschinità che si ritrova in Dickens.

Da “Le avventure di Oliver Twist” al “Canto di Natale“, la raffigurazione della miseria è una costante dei racconti che contrappongono cattiveria e bontà, egoismo e altruismo, odio e amore. In forma di racconto senza pretese politiche qui, mentre in Engels, come è ovvio, il cuore della narrazione è la centralità del capitale, dell’accumulazione di ingenti profitti a scapito di una vastità del pauperismo che dilaga, in contraddizione con le magnifiche sorti e progressive del capitanato d’industria.

Al principio, Engels si propone un lavoro di ampio respiro: una sorta di storia sociale dell’Inghilterra. Quella della condizione operaia doveva essere, per l’appunto, un capitolo, certamente uno degli ultimi, di questa disamina temporale della crescita della Gran Bretagna: dalla contesa dei mari con l’Olanda, la Spagna e la Francia, alla Rivoluzione americana, per arrivare alla costituzione dell’impero, al controllo di ampie porzioni di continenti e delle relative rotte commerciali.

Poi, spiega lo stesso Engels nella prefazione scritta a Barmen il 15 marzo 1845, l’importanza della trattazione era tanta da farne uno studio specifico, per quanto non separato e separabile da quella che, in seguito, sarebbe divenuta l’analisi più complessiva di un materialismo storico e dialettico su cui si sarebbe fondata la critica stessa dell’economia politica. Ormai ultrasettantenne, l’amico e compagno di lotte di una vita di Karl Marx, affida ad una ulteriore premessa tutto il valore che ritiene possa avere ancora la sua opera.

E’ evidente che, essendo trascorsi quarantasette anni, nel 1892 Engels non possa non avvertire i lettori dei mutamenti intanto intercorsi nella società, dei rapporti di forza mutati e della nuova condizione stessa in cui si trova a sopravvivere tanto il proletariato inglese quanto quello del Vecchio continente per intero.

Ma, precisa, quella lunga disamina della miseria dovuta allo sfruttamento della borghesia, che aveva così davvero creato le condizioni per la nascita di una coscienza rivoluzionaria, tanto sociale quanto civile, era ancora attuale come descrizione della «legge della moderna economia politica, che quanto più si sviluppa la produzione capitalistica, tanto meno essa può restare ancorata alle piccole pratiche dell’inganno e della frode che distinguevano il suo passato».

Nota Engels che dopo il 1847 si ebbe in Inghilterra una vera e propria esplosione economica della grande industria, davvero su vasta scala. La produzione aumentò con l’aumentare di una domanda che, tuttavia, non era sintomo di una espansione dei diritti e delle garanzie sociali per il proletariato, ma soltanto una conseguenza generatrice, nella ciclicità della dinamica capitalistica, di alti standard di benessere che stavano dando vita ad un ceto medio borghese a cui l’enorme massa degli sfruttati non poteva accedere.

Quello che noi oggi chiamiamo l'”ascensore sociale“, allora altro non era se non la timida speranza di non morire di stenti e privazioni per milioni e milioni di proletari in grado di vendere, pertanto, solo la loro forza-lavoro al padrone e, dopo dodici ore in fabbrica, tornare a marcire dentro tuguri umidi, fatti di una sola stanza, male ammobiliati, peggio riscaldati o protetti dalle intemperie. Dalle cronache di allora, senza ombra di dubbio non accusabili di simpatie socialiste, Engels trae lo spunto per verificare di persona quelle esistenze così miserrime.

Ovunque si rechi, registra che la situazione non differisce da città piccola a città grande e nemmeno da conte a contea della prospera Inghilterra. In ogni dove, la condizione del proletariato è praticamente uniforme, perché – ne conclude l’autore – uguale è il livello di sfruttamento che la classe operaia subisce da parte dei capitalisti. La scoperta dell’oro nelle miniere della California e dell’Australia darà all’impulso industriale, segnato alla data del 1847, un incremento ulteriore.

La globalizzazione nascente – ampiamente prevista da Marx come conseguenza dell’espansione irriducibile del capitale – porterà il regime della colonizzazione a creare nei territori conquistati grandi masse di nuovi proletari che, tuttavia, come osserva sempre il Moro per diventare dei lavoratori pienamente inseriti nel contesto della processo produttivo capitalistico impiegheranno più tempo di quello che si possa immaginare.

La trasformazione sociale dell’Inghilterra ha ampiamente dimostrato che la trasformazione per intero di un sistema economico è un procedere incostante, con accelerazioni prodotte dagli scambi e dai rapporti intercontinentali e, al tempo stesso, con decelerazioni improvvise dovute alla contrazione di alcuni settori di quei mercati.

La cura che Engels mette nell’osservazione della vita quotidiana dell’operaio inglese è la diretta conseguenza metodologica di chi ha analizzato la forza-lavoro da sempre non solo in chiave meramente speculativa, ma, anzi, l’ha trattata come un punto di espressione dialettica, come un elemento caratterizzante la formazione (ed anche il disfacimento) della società stessa.

Proprio la questione dell’espansione della domanda si pone nello studio scritto da Engels in relazione alla condizione miserrima del proletariato industriale delle grandi come delle medie città. La comunità è una forza sociale e, quindi, di conseguenza è una forza produttiva. Si potrebbe persino asserire che è il primo scalino della prosecuzione di una formazione della ricchezza che, nell’impiego individuale di ogni proletario, diventa per l’appunto il trampolino di lancio dell’economia capitalistica.

Ovviamente ci stiamo riferendo all’interpretazione tutta borghese e liberale di un essere sociale che viene privato della sua migliore e naturale espressione: quella della condivisione tanto delle ricchezze prodotte quanto dei rovesci di fortuna che possono intercorrere ciclicamente. Studiando le condizioni della classe operaia inglese, sia Marx sia Engels arrivano ben presto alla conclusione che «…la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo di separazione del produttore dai mezzi di produzione».

Il lavoratore, dunque, viene privato, privatizzato, reso altro rispetto al macchinario che utilizza, alla mansione che ricopre. E, quando con il lavoro che dà in fabbrica per la trasformazione delle materie prime ha raggiunto il livello di autoconservazione propria mediante il salario, ecco che lì nascono tanto il plusvalore quanto la miseria endemica della classe proletaria e, con essa, anche la lotta di classe stessa.

L’Inghilterra, dunque, non fa che mostrare davvero al mondo intero quello che accadrà mano a mano che il capitalismo si espanderà sul globo, su scala appunto mondiale. La circolazione delle merci prodotte nelle fabbriche britanniche è, in questo stadio avanzato del nuovo moderno capitalismo, il punto di partenza di una rivoluzione economica di cui gli effetti si percepiscono tutt’oggi.

Gli studi di Engels non si limitano alla messa in ordine di dati ricavati dai tanti giornali, studi, riviste e libri consultati per la disamina e la disarticolazione di una così variegata e complessa nuova struttura economica. L’indagine engelsiana scava nella quotidianità di un proletariato che, appena mette fuori il naso dalla fabbrica, è aggredito da molti altri sfruttatori e aguzzini.

Nel “Manifesto del Partito Comunista” vi si farà ampiamente riferimento, proprio per dimostrare come la lotta di classe sia rivolta contro chiunque approfitti direttamente o meno della forza e dell’intelligenza dei proletari. La grande industria inglese della manifattura, che impiegava la maggior parte della forza-lavoro tra ‘700 e ‘800, lascia progressivamente il posto, come primato di assunzione e livello di sfruttamento, a quella delle macchine che, quindi, inaugura la stagione di una modernizzazione esorbitante. E’ – nota Engels – un cambiamento che, da un ramo specifico della produzione, si estende a tutti gli altri.

Dalla “centralizzazione della popolazione” nelle grandi città si trae un primo significativo elemento di apprendimento del cambiamento economico e sociale: là dove maggiore è la densità, la concentrazione del proletariato, ebbene proprio in quel luogo le sorti del capitale sono destinate a cambiare radicalmente.

«L’atmosfera di Londra non può mai essere così pura, così ossigenata come quella di un paese di campagna; due milioni e mezzo di polmoni e due milioni e seicentomila fuochi raccolti su tre o quattro miglia geografiche hanno bisogno di una immensa quantità di ossigeno che si supplice soltanto con difficoltà, perché la costruzione della città rende in sé e per sé difficile la ventilazione».

Qui Engels intravede il grande problema dell’inquinamento, del cambiamento davvero climatico degli ambienti in cui si sopravvive nella miseria. La grande industria non contribuisce soltanto al disfacimento del vecchio orizzonte visivo delle grandi capitali e dei grandi centri urbani, ma influisce direttamente sulla salute di milioni e milioni di persone costrette a vivere tra i fumi delle fabbriche e, nelle poche ore che gli restano ogni giorno per vivere a casa con la famiglia, in stamberghe umide, con pochissima luce e pochissima aria pura.

Il degrado antisociale e disumano che il capitalismo fa subire all’umanità nuova, quella che si affaccia alle soglie del Ventesimo secolo, diverrà la cifra costante di uno sviluppo che sarà intangibile, messo sotto la teca dell’acriticità, di un dogmatismo ispiratore di una narrazione esclusivista, secondo cui saremmo arrivati al limitare della Storia e, quindi, al massimo grado di evoluzione e benessere possibile.

Il fallimento del capitale è la sua stessa contraddizione massima: la concentrazione delle ricchezze sempre più smodata e ristretta in poche mani e, di contro, la diffusione a macchia d’olio di una miseria indescrivibile tra le popolazioni colonizzate e nelle zone più industrializzate e proletarizzate del cosiddetto “primo mondo“.

Dalle fabbriche alle miniere fino alle cave di carbone. La “massa delle disgrazie” è un insieme di veri e propri orrori, di fatiche che rasentano lo schiavismo antico e che, in un certo senso, ne sono la moderna riproposizione attraverso il vincolo salariale.

In questo scenario di metà Ottocento, in cui la borghesia combatte la sua lotta di classe per imporsi globalmente come dominatrice del pianeta, la lotta di Marx e di Engels, nella dimostrazione scientifica della perturbabilità e dell’impossibilità per il capitalismo di dirsi imperituro e immutabile, è anzitutto studio delle condizioni della liberazione del proletariato, per arrivare un giorno al sovvertimento dell’ordine imposto dalla proprietà privata dei mezzi di produzione.

In questo contesto che si voleva, già all’epoca, emblema della modernità, nasce la coscienza di classe, si abbandonano progressivamente gli atti incongruenti di luddismo e si organizza la propria rabbia incanalandola in una rappresentazione dei bisogni come rivendicazione di diritti inalienabili. Sarà il principio di una grande, epocale riscossa di un proletariato mondiale che toccherà vette altissime e che, pure, precipiterà al suolo più volte, schiantato dalla forza dirompente di un capitalismo intenzionato a non morire sotto la spinta rivoluzionaria del socialismo e del comunismo.

Non è un destino cinico e baro, ma è la missione della classe lavoratrice: essere consapevole che la sua liberazione può arrivare solo dal capovolgimento dei rapporti di forza esistenti e che, quindi, non si può attendere nessuna presa di coscienza morale da parte del padronato. Il capitalismo non si muove su basi etiche, ma solo utilitaristiche, affaristiche e di conservazione dei privilegi acquisiti.

La storia del associazionismo sindacale, operaista e dell’organizzazione politica dei comunisti è lì per insegnarci che questo racconto della situazione del mondo del lavoro (ed oggi del grande mare magnum del precariato e dell’inoccupazione di lungo corso) è tutt’altro che finito. E che una lotta anticapitalista è tutt’altro che archiviata.

LA SITUAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA IN INGHILTERRA
FRIEDRICH ENGELS
FELTRINELLI, 2001
€ 12,00

MARCO SFERINI

8 novembre 2023

foto: particolare della copertina del libro

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