Al momento dell’annuncio della sua morte, avvenuta nella sua casa svizzera di Rolle con la pratica del suicidio assistito, le mille e una tessera del mosaico Jean-Luc Godard si sono riversate sulla rete. Di questo mosaico, fanno parte, tra le altre cose, le sue parole e le sue immagini, i suoi motti di spirito e i suoi giochi linguistici. La morte, all’epoca dei social network, ci ha abituato a questo rito che consiste nell’esporre un pezzo dello scomparso. Quello di Godard non è però un lutto come un altro.

Non solo per la statura titanica di questo «dio dell’arte». Ma perché Godard è da sempre il nostro contemporaneo, in ogni epoca, il nostro presente – in tutti i sensi che si possono attribuire a questa parola. Ed è di questa scomparsa, affatto eccezionale del presente che bisogna fare il lutto.

Un primo senso dell’essere presente appare nel Godard critico cinematografico, tra il 1952 e il 1959, e in seguito lo accompagna per tutta la vita. Introdotto ai «Cahiers du cinéma» da André Bazin, conosciuto alla Cinémathèque, Godard scrive con lo pseudonimo Hans Lucas alcuni pezzi su dei cineasti come Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman, Nicolas Ray.

Ma quello che resta della sua prospettiva di teorico è forse una frase che gli viene attribuita: «Un travelling è una questione morale», forse in relazione a Rossellini, ma che sintetizza un’idea contenuta nella celebre analisi che Rivette pubblica intorno al film Kapò di Gillo Pontecorvo. Si tratta di un credo per la critica e il fondamento della regia moderna.

Un regista è moralmente responsabile degli aspetti formali del proprio cinema. In questo senso, è un autore. Anche se non si è mai pensato come un critico di professione, forse più dei suoi compagni dei «Cahiers», Godard resterà un critico tutta la vita, per prima cosa di se stesso. Non sarà mai un conservatore. Continuerà a bruciare i ponti, tutti i ponti. Spesso per ritornare nello stesso luogo.

Presente vuol dire ovviamente moderno. À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) il suo primo lungometraggio è, insieme a I 400 colpi (1959) di Truffaut, il punto di partenza della Nouvelle vague, e l’ispirazione di tutta la modernità cinematografica. Il film avrebbe potuto non farsi. La sceneggiatura viene da un testo che lo stesso Truffaut aveva redatto a partire da una storia di cronaca cinque anni prima. Quel film che ora ci appare come un’opera d’arte perfetta è il frutto di mille esitazioni.

La giovane attrice Jean Seberg, reduce da un film hollywoodiano condotto al millimetro da Otto Preminger, le raccoglie in una lettera: «Ogni giorno la sceneggiatura cambia, e sempre in peggio. Ieri mi sono intrattenuta con il giovane regista; le sue teorie sul lavoro degli attori sono assai bizzarre».

E ancora, dopo due settimane: «È un’esperienza folle. Non ci sono luci, non c’è make up, non c’è il suono! Aspetto positivo: è talmente diverso dal modo di fare di Hollywood che divento spontanea». Godard esita, manda tutti a casa a metà giornata, litiga con il produttore Georges de Beauregard. Poi, dopo qualche giorno di tribolazione, avanza speditissimo. Gira quasi tutto camera in spalla, brucia i tempi e, come nota Truffaut che spesso viene sul set, ha un’idea geniale per ogni inquadratura.

Chi è meno inquieto è Belmondo, praticamente al suo debutto. Con un tocco di magia (e una foto di Bogard), Godard lo trasforma in erede di tutto il cinema noir americano. Perché se À bout de Souffle è certo un film moderno, questa modernità è fatta con pezzi e immagini del passato. Con il senno di poi, è chiaro che c’è già in quel film l’idea di usare le immagini come fossero parole.

Così come parole antiche o cadute in disuso possono entrare in un romanzo moderno, così vestigia di hollywood e cariatidi del cinema francese come Sacha Guitry possono esprimere il tempo presente.

L’immagine stessa del cinema moderno, la coppia di Viaggio in Italia di Rossellini, sarà ripresa da Godard praticamente in ognuno dei film del decennio 1960. Che si tratti di Anna Karina e Michel Subor nel film sulla guerra in Algeria Le Petit soldat (1960) o ancora di Belmondo con Anna Karina, nella fuga di Pierrot le fou, e infine nella commedia noir di Week end (1967). O ancora, del film centrale di questo primo periodo: Le mépris (Il disprezzo), con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Fritz Lang e Jack Lang – girato tra gli studios di Cinecittà e la villa Malaparte a Capri.

La versione francese è per certo uno dei film più diabolici mai concepiti (mentre la versione italiana, che non è di Godard ma del produttore Ponti, è uno dei più sciocchi). Godard spezzetta il romanzo di Moravia e riduce (o innalza) i personaggi contemporanei a divinità statuarie. Il film è un requiem dell’epoca d’oro del cinema e una sorta di requisitoria contro di esso. Il tutto con uno stile che sfida la pop art sul terreno dell’immaginario di massa.

Per molti, Godard finisce con il 1967, quando decide di uscire dal sistema industriale. Paradossalmente, è proprio scomparendo dalla ribalta che reinventa la propria presenza nel cinema.

Con il maggio 1968, la rivolta studentesca e operaia in Italia, il movimento pacifista americano e la rivoluzione mondiale, il presente sembra aver preso una velocità che il cinema, compreso quello della Nouvelle vague, è incapace di cogliere. Tra il 1968 e il 1973, Godard fonda il Gruppo Dziga Vertov, che in realtà è soprattutto un duo (Godard + Jean Pierre Gorin) al quale si aggiunge poi Anne-Marie Miéville, la quale diventerà poi la moglie di Godard. Il risultato è Jusqu’à la victoire, Ici et ailleurs, Vladimir et Rosa: un cinema militante, fortemente ideologizzato, apparentemente monotematico.

Ma la rivoluzione mondiale, che il gruppo cerca al tempo stesso di filmare e di applicare, è per Godard un modo nuovo per esplorare il cinema, in qualche modo riportandolo alle sue origini: al semplice registrare il rumore del mondo. Di tutti i suoni di rivolta, il più forte è quello della lotta palestinese che Godard ascolta senza tergiversare prima di tanti e anche dopo che molti sono diventati sordi.

L’esperienza si conclude con il più tradizionale Tout va bien, nel 1973. Nella seconda metà degli anni settanta Godard sembra ritornare ad un cinema di finzione. Ma è apparenza. La nuova sfida del presente è il rapporto tra il progresso tecnico del cinema (e in particolare del video) e la propria personale ricerca artistica. È di questo periodo l’incontro con l’ingegnere fondatore di Aaton Jean-Pierre Beauviala, che con le sue invenzioni (la celebre videocamera Paluche) ha aiutato il progresso del nuovo cinema documentario. Con Godard, provano a creare una macchina 35mm tascabile.

Mentre il cinema, inquietato dalla progressione della televisione, si rifugia in Francia nella qualità d’autore e in America nei blockbuster della Nuova Hollywood, Godard risponde con una nuova radicalizzazione sia dello spettacolo sia della sperimentazione. Il racconto diventa sempre più scarno, essenziale, iconico.

Il montaggio, liberato dall’incombenza narrativa, imporre accostamenti sempre più imprevedibili. In Passion (1982), Prénom Carmen (1983), Je vous salue Marie (1985), Godard mette i suoi spettatori a osservare un cinema in cui la finzione si volta dalla parte della macchina da presa e comincia a riflettere ad alta voce.

Questa ricerca non ha mai smesso di avanzare, film dopo film. L’ultimo Godard utilizza sempre di più immagini che non sono sue. A chi appartengono? In realtà, a tutti. In film come Film Socialisme o nell’ultimo, splendido, Le livre d’image (2018), lo spettatore è sostanzialmente il coautore del film, che si compone sotto i suoi occhi, a partire dalle migliaia di associazioni che le immagini ci chiedono di concepire. Nella sua forma più pura, il cinema di Godard è stato la presenza dello spettatore a se stesso.

EUGENIO RENZI

da il manifesto.it

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