Il ritorno della violenza fascista e la tolleranza di lunga data

Il neofascismo l’abbiamo conosciuto in molte forme dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi: dalla costituzione del Movimento Sociale Italiano ai tanti tentativi di ricomposizione di un “blocco...

Il neofascismo l’abbiamo conosciuto in molte forme dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi: dalla costituzione del Movimento Sociale Italiano ai tanti tentativi di ricomposizione di un “blocco nero” che ha segnato pagine per l’appunto oscure della politica italiana e tutt’ora non completamente circostanziate, rese visibili in ogni loro aspetto, tra le mille intersecazioni che erano alla base di intrecci anche internazionali.

Il neofascismo, dunque, ha avuto un volto – per così dire – “istituzionale“, forse di facciata, ma che ha sempre saputo distinguersi per azioni cruente, per tutta una riproposizione di metodologie aggressive proprie del ventennio mussoliniano, fatte di bastoni, percosse, coltelli nelle vie delle città e, ammodernatosi, in televisione, nelle tribune elettorali, prendeva l’aspetto doppiopettito del gentiluomo pacato, acculturato e degno d’essere ascoltato.

Anche Mussolini fece l’atto d’onore all’epoca del brutale assassinio di Giacomo Matteotti: nel momento in cui il giovane regime fascista scricchiolava, assunse su di sé la responsabilità dell’omicidio ma nessuno pagò veramente mai per la morte del deputato socialista.

L’onore dei fascisti, dunque, è un proclama e nulla di più e non potrebbe non essere così visto che le dittature militari campano sulle menzogne e devono bluffare continuamente nelle relazioni internazionali per essere accettate o, in qualche modo, tollerate. Ne è un esempio clamoroso tutta la storia politica di Hitler: dalle origini del NSDAP fino al Patto di Monaco a cui Gran Bretagna e Francia dovettero credere (o credettero veramente, eccezion fatta per un Winston Churchill che aveva bene intuito il potenziale di pericolo che vi stava dietro) e che venne tradito – nonostante fosse stato, per bocca di Hitler stesso, “l’ultima rivendicazione territoriale per i tedeschi” – pochi mesi dopo…

Storicamente parlando, dunque, l’arbitrio e la violenza sono nel codice genetico del fascismo di vecchio e nuovo modello. Solamente la fase resistenziale e la lotta di Liberazione avevano posto un argine alla considerazione del fascismo e dei fascisti come elementi degni di nota, di rispetto.

Fu con la fine della Seconda guerra mondiale e la proclamazione della Repubblica che in Italia la parola “fascista” divenne sinonimo di “onta“, una vergogna dirsi tali, uno stigma maggiore esserlo. Voleva dire, in pratica, porsi fuori dalla nuova storia del Paese, dalla sua nuova vita democratica, avendo preso consapevolezza delle tragedie provocate dal fascismo: una dittatura spietata che aveva ispirato nazismo e franchismo; le leggi razziali; la guerra.

Nell’Italia di oggi, nel nome del pluralismo e della democrazia, nella rivendicazione deontologica da parte dei giornalisti in merito al diritto “alla curiosità“, quindi all’ascolto di tutte e tutti, i fascisti vengono invitati nelle trasmissioni televisive e vengono trattati come se fossero interlocutori normali, al pari degli altri che accettano le regole costituzionali e democratiche e quindi accettano un confronto fatto di parole e non di violenza che si esprime in insulti, anatemi e, come si vede dalle tante aggressioni che si contano, con assalti all’arma bianca contro i nemici di sempre: i comunisti, gli antifascisti.

Il problema, però, sta a monte: se si tollera che determinate formazioni politiche neofasciste possano presentarsi alle elezioni di ogni livello, dal più piccolo comune della Repubblica fino al Parlamento nazionale, allora è anche difficile mantenere una cultura democratica fondata sulla percezione immediata della vergogna di essere fascisti ancora oggi, sempre e comunque.

E’ una specie di sillogismo politico mai dichiarato ma esistente nei fatti: se possono stare tra la gente con banchetti a raccogliere le firme per presentare le loro liste, allora la gente può parlare con loro e, anzi, la loro diventa una battaglia di paradossale rivendicazione di spazi di libertà che non concederebbero mai ai loro avversari o anche più semplicemente a chi dissente dalla linea politica, antisociale, immorale e incivile che rappresentano.

Ma la tradizione di “tolleranza” verso il neofascismo in Italia viene, per l’appunto, da lontano, da quel 1946 quando, nonostante due anni dopo venisse approvato il testo costituzionale dove si legge tra le norme finali che “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista“, i gruppi di estrema destra iniziarono a formarsi, a presentarsi alle elezioni stringendo patti coi residui monarchici di allora e arrivando sino all’oggi dove, nonostante le leggi che proibiscono l’apologia di fascismo, di concetti, simbologie e riferimenti al ventennio non si contano gli episodi.

Dunque esiste un problema di accettazione istituzionale del neofascismo mascherato sotto diverse sigle che non dichiarano esplicitamente nel nome una appartenenza ad una ideologia che recato così tanto nocumento al Paese nel secolo scorso.

E problemi di questa natura diventano, purtroppo, sempre problemi giuridici, di cavillosità che si inseriscono perfettamente nel gioco del rispetto democratico delle differenze di opinione, che giocano proprio sull’interpretazione delle leggi per vivere alle spalle dello Stato di diritto stesso.

Sconfiggere il neofascismo è difficile anche per questi motivi, ma diventa molto più complicato dopo decenni di revisione della storia: a cominciare dai “ragazzi di Salò” equiparati in morte ai partigiani e, quindi, riconsegnati al dibattito pubblico come una parte legittima del conflitto che oppose italiani contro altri italiani.

Bisognerebbe, inoltre, non vivere in un periodo di grande crisi economica (quindi sociale), non trovandosi dunque davanti ad un malcontento facilmente utilizzabile dalle forze di estrema destra come dimostrazione dell’incapacità della democrazia istituzionale ad affrontare problemi di larga portata, proponendo soluzioni autoritarie che richiamano alla mente lo schema quasi meccanicistico di nascita, crisi, declino e caduta della Repubblica di Weimar, di quella Germania dove i cittadini andavano a fare la spesa con i carretti pieni di una moneta svalutata, laddove un dollaro veniva scambiato con milioni e milioni di marchi.

Come si vede, l’intrecciarsi di tutti questi elementi economici, sociali e politici crea le condizioni fertili per la ricomparsa della violenza politica da parte di gruppi legittimati da un consenso che rischia di diventare di massa.

La crisi verticale della sinistra ha aperto una voragine in tal senso. Per questo occorre recuperare al consesso democratico, all’antifascismo come religione civile del Paese quella larghissima parte di cittadine e di cittadini che, abituati ad odiare chi vive la loro stessa condizione di povertà vedendo nell’altro un nemico invece di un alleato contro gli sfruttatori, il padronato, i cosiddetti “imprenditori“.

E questo lavoro di recupero sociale, politico, civile e morale può farlo soltanto chi unisce la lotta di classe alla lotta antifascista, incarnando i capisaldi della Costituzione della Repubblica nella loro essenza primigenia sintetizzabile in un concetto molte volte espresso da Sandro Pertini: non esiste libertà senza giustizia sociale. E i fascisti non possono garantire la prima e tanto meno la seconda.

Dimostrarlo è una sfida, una delle sfide importanti cui siamo chiamati come comuniste e comunisti. Come nuove comuniste e nuovi comunisti, rifondando i valori di quell’uguaglianza che allarga sempre i diritti sociali e civili senza esigere nuovi doveri. La sfida la dobbiamo accettare tutte e tutti e si chiama “Potere al Popolo!“.

MARCO SFERINI

14 gennaio 2018

foto tratta da Pixabay

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