Spiacerà a molti, anche se pochi lo confesseranno, la grandiosa ricostruzione dei 55 giorni più lunghi nella storia della Repubblica firmata da Marco Bellocchio: Esterno notte (evento fuori concorso), titolo in continuità contrapposta al Buongiorno Notte del 2003, lì la claustrofobia del carcere del popolo in via Montalcini nel quale fu rinchiuso il presidente della Dc, qui il vasto teatro popolato da quelli che stavano fuori. I politici e i brigatisti, i familiari del rapito e il Papa, i veri agenti segreti e il sottobosco grottesco degli infiltrati, degli informatori, dei beninformati. Quasi sei ore di film che nelle sale sono state divise in due parti – la prima è uscita ieri, la seconda il 9 giugno – e in tv, quando uscirà in autunno, in sei puntate.
La ricostruzione di Bellocchio non piacerà all’esercito folto dei cacciatori di misteri. Non ce ne sono e il film lo dice chiaramente, anzi lo fa dire dall’agente americano Steve Piecznick, inviato da Washington per seguire il caso, al ministro degli Interni Cossiga, dolente e nevrotico, piegato alla logica della ragion di Stato ma anche roso dai sensi di colpa, interpretato magistralmente da Fausto Russo Alessi. «Chi c’è dietro le Br?», chiede il ministro e lo yankee è tassativo: «Nessuno. Voi italiani cercate sempre un secondo movente, e poi un terzo e un quarto…».
Alla spazzatura complottista Bellocchio non concede niente. Lavora un po’ di fantasia solo immaginando un incontro tra il rapito e il suo confessore don Mennini, del quale si è sempre vociferato ma che è improbabile ci sia davvero stato, date le rigidissime regole di sicurezza brigatiste. Dal punto di vista storico, comunque, il particolare non cambia nulla e il colloquio-confessione permette al regista di dar voce a Moro facendogli dire apertamente quel che dalle lettere comunque traspare in evidenza: la colpa che confessa, quella che non gli perdonava l’apparato mediatico dell’epoca, spietato e feroce come in poche altre occasioni, era semplicemente il voler vivere, il non voler morire, l’essere uomo e non più uomo di Stato.
Esterno notte disturberà, se lo capiranno e non è detto, anche gli eredi dei politici di allora, che seguono con minor talento e molto dilettantismo la stessa logica. Sono loro i principali protagonisti del film, i leader politici dell’epoca, e non era affatto scontato. Nella sterminata bibliografia sul delitto Moro i politici e la politica compaiono in realtà pochissimo, quasi solo nel bel libro di Agostino Giovagnoli Il caso Moro, il solo concentrato proprio sul come vissero quella tragedia i politici e il Palazzo. Qui invece tengono banco anche grazie ad attori in stato di grazia: Fabrizio Gifuni, nello stesso ruolo di Buongiorno notte, ruba a Volontè la palma di miglior interprete di Aldo Moro sullo schermo e non era facile, Toni Servillo, Paolo VI, è quasi allo stesso livello.
Neppure misurandosi con i politici che scelsero di non trattare, condannando un Moro che avrebbe potuto essere salvato senza provocare «il crollo della democrazia», Bellocchio scivola nella superficialità o nella condanna facile. Nessuno voleva Moro morto: non il lacrimoso Zaccagnini, il tormentato pontefice, il tragico Cossiga e neppure il gelido Andreotti. Il vertice con presenti Andreotti e un rappresentante del Pci che diede il semaforo verde all’offerta di un riscatto per l’epoca mostruoso, 20 mld di lire, dice chiaramente che nessuno sperava che il sequestro finisse nel modo più tragico. Non fecero nulla per impedirlo, molti sinceramente soffrendone, perché la logica della politica e del potere glielo impediva.
Se, dal punto di vista storico, c’è un limite in Esterno notte è proprio non chiarire davvero quale calcolo politico ebbe la meglio su ogni altra considerazione. Non tanto una concezione rigida della difesa dello Stato ma qualcosa di più terragno e più misero: l’impossibilità di sfidare il veto del Pci, che minacciava la crisi di governo e conseguenti elezioni anticipate che, presentandosi come il vero «partito della fermezza», avrebbe probabilmente vinto.
La lettura di Bellocchio è più zuccherosa, trascura la competizione durissima in corso anche negli anni della solidarietà nazionale tra Dc e Pci. Ma il suo film non è un trattato di politologia: quel che conta è far emergere in tutta la sua eterna spietatezza la logica della politica, quella che spinse gli amici più intimi di Moro a farlo passare per pazzo, contrapposta alla logica umana del prigioniero che vuole vivere e della moglie Noretta, messa in scena da una eccezionale Margherita Buy che riesce a far risaltare solo con lo sguardo l’abisso che separa la sua concezione della vita da quella dei politici tra i quali suo marito aveva fino a quel momento primeggiato.
È la stessa logica che, nel film, muove Mario Moretti, leader delle Br. Nel suo caso però a Bellocchio manca, forse per scelta, il senso delle sfumature applicato invece agli inquilini del Palazzo. Il dilemma del brigatista non è diverso da quello dei politici, e non è stato probabilmente neppure meno lacerante, mentre nel film appare troppo piatto e ideologico. Dei due brigatisti protagonisti del film, Adriana Faranda e Valerio Morucci, alla prima spetta un ruolo affine e speculare a quello di Noretta Moro mentre il secondo, complice la dichiarata passione per Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, è derubricato a una specie di nichilista, consapevole di essere destinato alla sconfitta ma deciso a portarsi dietro quanti più nemici possibile prima di essere battuto.
Esterno notte è un grande film sul versante politico della tragedia Moro che perde colpi quando, fortunatamente di rado, si sposta nel campo brigatista. Ma un’ultima verità scomoda Bellocchio la dice anche sui rapitori: quel che volevano, il prezzo per la vita di Aldo Moro, non erano i 20 mld già pronti o qualche scarcerazione impossibile. Erano solo poche parole pronunciate dal segretario della Dc in tv per ammettere quel che tutti sapevano essere vero: che le Brigate rosse erano un’organizzazione politica comunista armata. Probabilmente sarebbe bastato a salvare Moro.
ANDREA COLOMBO
foto: screenshot You Tube