Echi del verosimile in un percorso d’amore

L'intervista. Parla l’autore di «In terra straniera gli alberi parlano arabo». Nel romanzo, che esce oggi per Marcos y Marcos, la foresta si trasforma in spazio per la narrazione. Lo scrittore parteciperà la prossima settimana a Babel, il festival di letteratura e traduzione di Bellinzona. «Nessun albero, fiume, valle, montagna o deserto chiederanno mai ad un uomo "da dove vieni e cosa ci fai qui". Oppure, "quando partirai"»

Una Baghdad in fiamme sembrerebbe l’esatto opposto della quiete di una foresta svizzera. Eppure è tra gli alberi, nel silenzio apparente che si fa voce e soprattutto orecchio pronto ad accogliere la storia di una fuga per la salvezza, che un giovane iracheno ritrova il suo Iraq. Raccontandolo, affida al bosco i ricordi, dolci e terribili, della sua patria. Le «stregonerie» della nonna, la poesia, i libri accatastati su al-Mutanabbi Street, il gelso e il melograno.

Quella che Usama al-Shahmani affida al romanzo In terra straniera gli alberi parlano arabo (Marcos y Marcos, pp. 19e, euro 16) è una storia vera, la sua. Quella di un rifugiato che raggiunge la Svizzera nella seconda guerra del Golfo, senza mai lasciarsi dietro davvero la propria casa.

Il romanzo segue due filoni che si sovrappongono, uno individuale e uno collettivo: la storia di suo fratello Ali e la storia dell’Iraq. La scomparsa di Ali è paradigma della scomparsa dell’Iraq conosciuto e dell’esilio obbligato?

C’è una sovrapposizione intenzionale dei due filoni nel tessuto narrativo. Il primo è il personaggio di Ali, mio fratello minore scomparso in circostanze misteriose a Baghdad il 10 aprile 2006 durante la guerra civile che seguì l’occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003.
Ali è uno delle migliaia di civili iracheni scomparsi o uccisi in questi anni nei modi più orribili, i loro corpi sfregiati per non essere riconosciuti dai familiari. La mia famiglia ha cercato Ali a Baghdad, a Mosul e in altre città per più di due anni, senza trovarne traccia. Ci sono così tanti corpi di vittime scaricate dalle milizie e da altri movimenti terroristici nel Tigri e nell’Eufrate.
Di tanto in tanto, capitava che la gente di Baghdad vedesse i cadaveri galleggiare al mattino sul fiume come segni di una morte in movimento che correva e vagava, fissava i volti degli iracheni con arroganza in una città un tempo chiamata la città della pace. Nel romanzo ho tentato di dare una tomba a mio fratello: Ali è disperso, non è morto, c’è una grande differenza. La morte, come fine naturale della vita, è una parte importante dell’identità umana. Non c’è luogo più bello della letteratura per immortalare persone occultate per sempre da guerre e dittature. Il secondo filone è la perdita dell’Iraq come paese con una ben nota identità storica e civile.
Ho cercato di dare all’Iraq una narrativa appropriata che rappresentasse la sua esistenza, ho utilizzato immagini della guerra e della dittatura che raccontano quello che abbiamo vissuto io e milioni di iracheni e ciò che ha portato milioni di noi alla dispersione nel mondo.

La scansione del racconto è dettata dagli alberi, interlocutori con cui parlare e metafore con cui descrivere stati d’animo ed eventi. Qual è il motivo della scelta della natura come strumento di racconto?

La natura è l’unico posto sulla terra a cui l’uomo può appartenere senza che un albero, un fiume, una montagna, una valle o un deserto gli chieda «da dove vieni e cosa ci fai qui». Oppure, «quando partirai». La natura è libertà, è onestà, è il vero legame tra l’uomo e la sua mente. Il romanzo è stato costruito prendendo la natura, in particolare la foresta, come spazio per la narrazione. Il romanzo è composto da sette capitoli e in ognuno un albero rappresenta una chiave di lettura della storia. Gli alberi sono il principale vettore del romanzo, il motore che guida gli eventi, li nutre e li sviluppa. L’albero dell’amore, della speranza, della patria, della morte, della pazienza. Ho cercato di dare alla natura un linguaggio che il protagonista del romanzo capisca e con cui si armonizzi.

Nel romanzo cita al-Mutanabbi Street. Baghdad è stata capitale della cultura e della letteratura regionale per secoli. E durante le proteste di Piazza Tahrir i giovani hanno aperto nel presidio una libreria. Come può descrivere questo legame forte della città con la letteratura?

Al-Mutanabbi Street è un monumento culturale molto importante per Baghdad e l’Iraq in generale. È una strada in cui ogni venerdì si può assistere a un evento culturale e a un carnevale della conoscenza a cui partecipano persone di ogni classe, sesso, età, orientamento letterario e culturale. È una strada unica, con i suoi vicoli, le biblioteche e i caffè, che ha ospitato la maggior parte della storia culturale irachena dall’inizio del ventesimo secolo ad oggi. Non c’è scrittore o scrittrice dell’Iraq che non siano passati per questa strada.
Lì sono state recitate poesie, presentate commedie, letti romanzi, le discussioni nei caffè hanno portato a tesi di laurea e di dottorato in filosofia, linguistica ed economia. È diventata un simbolo del libero pensiero, della parola che difende la coscienza umana e del diritto a vivere liberamente, lontano dall’ingiustizia e l’usurpazione. Baghdad è collegata ad al-Mutanabbi come una barca è collegata a una vela.

Esiste oggi un panorama letterario significativo in Iraq?

C’è una nuova scena culturale, specialmente nella poesia e nel romanzo. Molti scrittori che vivono in Iraq trattano le situazioni che riflettono ciò che è accaduto negli ultimi cinquant’anni. Ci sono, poi, scrittori iracheni che vivono in diverse parti del mondo e scrivono in lingue diverse dall’arabo. Cercano di mescolare le culture: si scopre presto che la dimensione umana della letteratura è identica pur con lingue e identità culturali diverse.

Tra pochi giorni parteciperà al Festival Babel di Bellinzona, dedicato quest’anno ai vent’anni dall’11 settembre. Un evento che ha cambiato il mondo. Su quale aspetto si incentrerà il suo intervento?

L’11 settembre è senza dubbio uno di quei momenti nella storia che cambiano la mappa politica, culturale ed economica del mondo. Ha colpito le società di tutto il pianeta, quelle del mondo arabo in particolare. Dopo l’11 settembre, in Medio Oriente si sono rafforzati movimenti radicali, da Al-Qaeda ai Talebani, movimenti che hanno compiuto attacchi terroristici in varie parti del mondo, non solo a Baghdad, a Bassora, a Mosul, ma anche a Madrid, Parigi, Berlino, Londra, Vienna.
Questi gruppi radicali sono diventati influenti nelle politiche di tanti paesi mediorientali e hanno creato un’atmosfera di violenza all’interno di società prima caratterizzate dalla pacifica convivenza. Oggi molte minoranze, i cristiani, gli yazidi, gli armeni, gli assiri, sono convinte che l’idea della convivenza pacifica sia ormai impossibile, un’utopia.
C’è una cosa che però non va dimenticata: in Iraq come nel resto del mondo arabo sono tanti quelli che rifiutano l’islam politico in tutte le sue forme. Non significa che rifiutano l’islam come religione, lo rifiutano come forma politica. Sono persone che aspirano a uno Stato civile e una società che crede nella democrazia e nella libertà, che rispetta i diritti umani e rifiuta l’oppressione, che non cerca di opprimere le minoranze o di eliminarle. Questo spaccato di società è oggi rappresentato dai giovani: sono l’unica speranza di liberare i popoli dal pantano dell’islam politico.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

foto: particolare di «Twilight Trees» di Ruth Bunnewell


FOCUS SULLE TORRI GEMELLE

La 16a edizione di Babel, il festival di letteratura e traduzione di Bellinzona, che si svolgerà tra il 10 e il 12 settembre, sarà dedicato all’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle. Il titolo è «Babel/Babele» ed è riferito a tutte le lingue dell’Impero Babilonese che comprendeva gli attuali Iraq, Iran, Libano, Siria, Palestina e Turchia. Paesi che oggi conoscono ampie diaspore, in buona parte connesse al crollo delle Torri. «A vent’anni esatti dall’11 settembre 2001, Babel/Babele osserva le più alte costruzioni dell’immaginazione, i loro crolli e le macerie mirabolanti». Tra i numerosi ospiti: l’iraniano Kader Abdolah, perseguitato dallo Scià e poi da Khomeini, rifugiato politico in Olanda, gli iracheni Sinan Antoon, che vive attualmente negli Stati Uniti, dove è professore associato alla Gallatin School della New York University, il libanese Charif Majdalani, il francese Mathias Enard, grade viaggiatore e conoscitore del Medioriente, oltre a Usama Al-Shahmani.

Informazioni su www.babelfestival.com

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