Chi è morto di invidia o di Pisapia

Ho seguito buona parte dello streaming del cosiddetto happening del nuovo soggetto politico di Giuliano Pisapia e di Articolo 1-Mdp. Happening al quale è stato dato il nome di...
Giuliano Pisapia

Ho seguito buona parte dello streaming del cosiddetto happening del nuovo soggetto politico di Giuliano Pisapia e di Articolo 1-Mdp. Happening al quale è stato dato il nome di “1nsieme, nessuno escluso”. Ammetto che, data la distanza che separa le mie posizioni politiche da quelle dei protagonisti di Piazza Santi Apostoli, non ne avevo affatto voglia, eppure hanno prevalso curiosità, sincero spirito democratico e necessità di conoscere più nel profondo coloro nei quali non mi rispecchio, anche per poterne cogliere appieno tutte le contraddizioni.

Direi che la manifestazione, pardon, l’happening tenutosi a Roma possa essere sintetizzato in tre punti che ritengo fondamentali per capire la natura del (non troppo) nuovo progetto politico di Pisapia e degli ex dem:

1) La conferma che la costruzione di questo nuovo soggetto del cosiddetto centrosinistra proceda dall’alto verso il basso, e non viceversa: le parole di Gad Lerner nel presentare Pisapia (tra l’altro paragonandolo indirettamente a Berlinguer!), ma anche i cori di acclamazione per Pisapia e Bersani in stile Leopolda, designano capo e vicecapo di tale soggetto e danno la misura della natura politicistica, leaderistica, autoreferenziale e dunque escludente di tutta questa operazione (altro che “nessuno escluso”).

2) La straordinaria pochezza, quanto a capacità comunicativa e contenuti, di Pisapia: nel suo discorso sono state ripetute fino alla nausea parole o espressioni banali e astratte come “centrosinistra”, “futuro” (mi ricorda qualcuno), “campo largo e plurale”, o “uniti si vince”, il tutto condito dallo stesso carisma di un bradipo e da qualche citazione (da Don Milani a Mandela fino a Rodotà) che anziché arricchire il suo discorso si è rivelata addirittura fastidiosa se considerata nel contesto. Insomma, si sceglie la via leaderistica, ma il leader incoronato è tutto fuorché tale.

3) L’ennesima rivendicazione, da parte di Bersani, delle politiche neoliberiste fatte in passato dal centrosinistra: per Bersani la sua globalizzazione era normale per quei tempi, essa aveva un “volto umano” e ciò che il centrosinistra voleva allora era una “economia di mercato” ma non una “società di mercato”, specificando che ora le cose sarebbero cambiate perché “la globalizzazione ripiega”. Oltre ad ignorare che gli effetti devastanti della globalizzazione, pur mostrandosi soprattutto ora in tutta la loro asprezza, derivano comunque dalle politiche che lui e gli altri blairisti in tutto il mondo decisero di attuare, oltre a dimostrare la sua totale subalternità all’economicismo (da cui il presunto primato dell’economia sulla politica), Bersani fa un errore di valutazione clamoroso distinguendo totalmente tra “economia (di mercato)” e “società (di mercato)”: capisco che Marx lo abbia abiurato da tempo, ma non occorre essere marxisti per comprendere che l’economia, determinando le condizioni materiali di esistenza delle persone, incide inevitabilmente sulla società, non essendo un caso che alla globalizzazione economica di stampo liberista corrispondano società consumistiche, individualistiche e sempre più inquinate e diseguali.

Quanto visto e ascoltato, insomma, ha rafforzato in me una convinzione che avevo da tempo, e non certo per sciocchi capricci identitari, bensì per quanto detto e fatto in questi ultimi tempi dagli esponenti del rispolverato centrosinistra: quella di Campo progressista e Articolo 1 è un’operazione di ricomposizione di un ceto politico sconfitto dalla storia e resosi conto troppo tardi dei disastri provocati da un modello economico sposato convintamente fino a non molto tempo fa, un’operazione che (anche sulla base di quanto detto (espressamente) da Claudio Amendola, il cui intervento è stato registrato e trasmesso sul finire dell’evento, e (indirettamente) da Pisapia, sia prima, sia durante, sia dopo la manifestazione di ieri) mira a spostare a sinistra il Pd(r), oramai collocatosi su posizioni di centro-destra.

Non a caso neanche D’Alema, che pure viene descritto come il più refrattario ad una ricostituzione del centrosinistra che comprenda anche il Pd, ieri non ha escluso una possibile convergenza post-elettorale con il suo ex partito. Ebbene, si tratta di una questione assolutamente da non sottovalutare, specie per quelli come me che credono nella nascita di una nuova sinistra, radicale e completamente autonoma da e alternativa al Pd: porre l’accento sulla questione di un’eventuale alleanza, anche post-elettorale, con il Pd non è, come si potrebbe pensare, un voler ignorare le ben più importanti questioni programmatiche riguardanti la sinistra che deve nascere, ma, anzi, sbrogliare un nodo decisivo per capire se, quei programmi di radicale discontinuità che tale sinistra vuole e deve portare avanti e attuare, possano essere portati avanti e attuati con coerenza e senza compromessi al ribasso.

Dire oggi, infatti, di non escludere alleanze col Pd equivale a non escludere alleanze col partito di Renzi, cioè col partito del Jobs act, perché, che piaccia o meno a demoprogressisti e pisapiani vari, oggi il Pd è Renzi (ricordate? Il 70 % della sua base elettorale lo ha confermato alla segreteria del partito) e lo sarà probabilmente per molti altri anni ancora. Un partito, dunque, che crede e crederà ancora nelle magnifiche sorti e progressive del libero mercato, della flessibilità nel mondo del lavoro, della necessità di attirare in Italia gli investitori privati stranieri anche a costo di sacrificare i nostri mari o i nostri paesaggi, nonché la progressività fiscale costituzionalmente sancita.

Una forza di sinistra che voglia seriamente cambiare in modo radicale la nostra società ha il dovere di lottare per l’unità, ma l’unità è possibile con chi è simile a te, non con chi è il tuo opposto, il che vuol dire che una convergenza col Pd, per chi sta alla sua sinistra, sarebbe possibile solo se quest’ultimo fosse un partito almeno socialdemocratico, cosa che evidentemente non è né io penso sarà anche dopo la fine della leadership renziana (a meno che non vogliamo illuderci che un Franceschini o un Letta siano degli alfieri dell’antiliberismo).

Se Giuliano Pisapia pensa davvero di voler praticare questa benedetta discontinuità e si ritiene quindi alternativo al Pd perché, allora, ha rifiutato e continua a rifiutare di dialogare con Anna Falcone, Tomaso Montanari e le altre forze (civiche e politiche) che si rispecchiano in ciò che è emerso dall’assemblea del Brancaccio? Perché Pisapia risponde all’invito dei due promotori di quell’evento con un laconico “Non ci sono le condizioni”?

Perché non li invita al suo “happening”? Perché, nonostante lo slogan “nessuno escluso”, si rifiuta di dar loro la parola dopo la relativa richiesta fattagli dai due, sostenendo che l’happening non è aperto a chi non ha partecipato alla formazione del suo movimento, salvo poi far parlare (anche) persone che tale contributo non hanno dato? Perché l’ex sindaco di Milano si dimostra più favorevole ad un dialogo col Pd anziché con la sinistra che dovrebbe essergli più vicina, come quella del Brancaccio?

Il paradosso di tutta questa ambigua situazione è che la sinistra che non rientra nel movimento di Pisapia viene costantemente tacciata da quest’ultimo di minoritarismo e identitarismo, con l’ausilio di una buona fetta dei media che contribuisce a regalare questa immagine, quando è evidente che i primi a non volere il dialogo con questa sinistra, quella che veramente lotta da anni, in tutte le sue forme, contro le ingiustizie sociali, sono proprio i neoulivisti.

Non se la prendano esponenti o semplici simpatizzanti di Mdp se qualcuno, non per identitarismo, ma per profondo realismo, li accusa di essere, insieme a Campo progressista, un bluff col quale si sta cercando di recuperare i consensi persi a sinistra dal Pd per riportarli alla “casa madre”. Un esito del genere, che ora come ora è molto probabile, rischia di mettere i bastoni fra le ruote a una sinistra che, pur faticando ad emergere come forza popolare e di massa nella società italiana, ha avuto il merito e la coerenza di stare sempre dalla stessa parte, dalla parte degli ultimi, e che forse anche per questo veniva guardata con un po’ di invidia e forse perfino di disprezzo, il 18 giugno al Brancaccio, da gente come D’Alema che fatica ancora ad ammettere che la guerra in Kosovo è e sarà sempre una delle più gravi nefandezze di cui si sia macchiata la “sinistra responsabile e di governo”.

Tutti e tre i punti salienti dell'”happening progressista”, da me sopra indicati, bene esprimono gli errori perpetrati dalla sinistra italiana negli ultimi vent’anni (processi di costruzione di partiti calati dall’alto, leader inadeguati, rinuncia alla trasformazione sociale governando l’economia, e non facendosene governare).
Seguire Pisapia vuol dire andare incontro, per l’ennesima volta nella storia repubblicana, alla morte della sinistra. Non facciamolo, lo dobbiamo a “(…) Chi vive in baracca, chi suda il salario. (…) Chi fa il contadino, chi spazza cortili. (…) Chi suda, chi lotta, chi mangia una volta. Chi gli manca la casa, chi vive da solo. Chi prende assai poco, chi gioca col fuoco. Chi vive in Calabria, chi vive d’amore (…) chi muore al lavoro. (…)”.
Chi muore al lavoro.

ANTONIO MOSCA

redazionale

4 luglio 2017

foto tratta da Wikimedia Commons

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