Arriva la sberla, la manovra-bis si avvicina

Recessione. Una redistribuzione senza una riforma fiscale e senza investimenti innovativi ha il fiato corto. Confindustria fa la Cassandra ma reclama solo più Tav

Più che rallentare, l’economia europea inchioda bruscamente. La locomotiva tedesca non tira più come qualche mese fa. Le stime di crescita per il 2019 sono quasi dimezzate, dall’1,8% in più previsto in autunno all’1% di fine gennaio. Probabilmente l’anno in corso sarà il peggiore degli ultimi sei. In un quadro dell’economia mondiale assai poco roseo. Il rallentamento della Cina, sia subito che voluto, è un dato ormai acquisito e la guerra dei dazi non sembra premiare Trump nella misura desiderata.

Slowbalisation titola la cover dell’Economist di questa settimana, disegnando il mondo come il guscio di una chiocciola e decretando la fine degli anni d’oro della globalizzazione. Intanto continua la sfrenata corsa alla finanziarizzazione del sistema, nella sua versione peggiore. Secondo i nuovi studi di dicembre il valore nozionale dei derivati in circolazione nel mondo supera di 33 volte il Pil mondiale, ben più di tre volte di come veniva calcolato nel 2008. La loro maggiore concentrazione sta nelle banche europee.

La Deutsche Bank ha più derivati di tutte le banche giapponesi nel loro insieme. Se a questa si aggiunge la Barclays e il Credit Suisse si arriva a un importo di derivati superiore a quello delle prime 14 banche Usa. Come dire che i vecchi subprime in mutata forma hanno trasvolato l’oceano. Siamo di nuovo seduti su una nuova enorme bolla finanziaria, pronta a scoppiare.

È vero quanto diceva Marc Bloch, cioè che il capitalismo è un regime in cui i debiti non si ripagano mai, perché se si dovessero ripagare tutti, il capitalismo crollerebbe. Ma ogni tanto quel momento arriva. E quando i debiti devono essere ripagati, è il momento della crisi, è il momento che – osservava Galbraith – separa gli sciocchi dal loro denaro, ma purtroppo anche gli operai dal loro lavoro. Oggi questo fenomeno oltre che vestire i panni della disoccupazione classica assume il carattere sempre crescente della precarietà, ove la condizione del working poor è la più diffusa. Così succede da noi ove, quando i dati sull’occupazione, legalmente taroccati, ce la indicano in moderata crescita, significa che si riduce il lavoro a tempo indeterminato. Intanto la sberla della certificazione della recessione italiana è arrivata. Conte si va vanta di averla prevista, ma certo di non ha fatto nulla per evitarla. Continua il solito melenso rimbalzo delle accuse.

Di Maio dice che è colpa dei governi precedenti, Padoan gli dà dell’ignorante. In realtà è vero che il degrado dell’economia italiana ha una lunga storia e molti padri, di centrodestra come di centrosinistra, quanto che la manovra avanzata da questo governo ha peggiorato ulteriormente le cose. Aspettarsi un rimbalzo positivo dal decreto sul reddito di sudditanza e quota 100 è pura illusione, così come lo fu per gli 80 euro di Renzi. Del resto i due provvedimenti entreranno in funzione solo nella seconda parte del 2019, con la clausola della Ragioneria che se i fondi non dovessero bastare l’uno li toglierà all’altro.

Una redistribuzione senza una radicale riforma fiscale (al suo posto avanza la flat tax e la controriforma dell’Irpef) che colpisca le ricchezze in tutte le loro forme e senza l’avvio di investimenti in settori innovativi, ha solo il fiato corto della demagogia. La Confindustria prevede che nel primo semestre 2019 ci sarà un rallentamento ancora peggiore del passato trimestre, ma poi reclama solo la Tav. L’irresponsabilità e l’incapacità delle classi dirigenti, economiche e politiche, si tengono per mano.

Solo che la situazione per questo governo che si regge sull’assenza di un’opposizione peggiora per davvero. Forse persino il dato di Bankitalia di una crescita dello 0’6% appare ottimistico. Il decalage delle previsioni governative ha sfondato il muro del ridicolo. Le agenzie di rating sono in agguato e la relativa tranquillità dei mercati potrebbe diventare burrasca nello spazio di un mattino. L’Istat diffonderà il 5 marzo i dati di consuntivo su Pil, deficit e debito e il Def di metà aprile, ben prima delle elezioni europee, dovrà ridefinire il quadro. L’ipotesi di una manovra bis tra i 4 e i 7 miliardi diventa sempre più possibile, anche se, e proprio perciò, il governo si affanna a negarla. D’altro canto una sorta di manovra occulta sta già nei 2 miliardi accantonati in accordo con Bruxelles per sei mesi, che potrebbero essere spesi nella seconda metà del 2019 in caso di scostamento dal deficit programmato. Ma potrebbero non bastare.

Nel depresso quadro di Eurolandia emerge un’eccezione che non ti aspetti. E’ il caso della Francia che ha il segno più nella crescita. Poca roba, si dirà. Ma lo 0,3% in più nell’ultimo trimestre 2018 avviene proprio nel fuoco della rivolta dei Gilets Jaunes. Daniela Ordonez di Oxford Economics ci spiega che pur nelle incertezze«la fiducia dei consumatori è rimbalzata in modo rilevante dopo che il forte stimolo fiscale introdotto in risposta alle proteste ha iniziato ad avere effetti». Vuoi vedere che la lotta paga?

ALFONSO GIANNI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

categorie
Economia e società

altri articoli