Una rivoluzione passiva

Con poca diplomazia e perfino un po’ ruvidamente vorrei sostenere una tesi (sulla quale in verità è da tempo che argomento) che in questo passaggio della vicenda politica e...

fran1Con poca diplomazia e perfino un po’ ruvidamente vorrei sostenere una tesi (sulla quale in verità è da tempo che argomento) che in questo passaggio della vicenda politica e sociale del Paese non trova certo il conforto di un’opinione pubblica più larga. La tesi è che quel che ci sta succedendo intorno somiglia molto a ciò che Gramsci, riprendendo un concetto dal saggio di Cuoco sulla rivoluzione napoletana del 1799, chiamò “rivoluzione passiva”.
La rivoluzione passiva per l’intellettuale sardo è diversa da una restaurazione perché non è un atto di forza, di dominio, ma cerca egemonia. Un insieme di trasformazioni molecolari, dove la sfera sociale è essenziale, che alterano le forze politico – sociali antecedenti e diventano la base per ulteriori trasformazioni. Nella rivoluzione passiva il blocco egemone assorbe gli intellettuali che fanno riferimento alle classi subalterne assimilandoli al proprio progetto e privando di quadri il progetto alternativo.
Forse il linguaggio che descrive il processo risulterà un po’ datato ma, ad intenderci, credo che conservi una sua brutale efficacia. Le culture radicali che si muovono ormai quasi egemoni in Italia, anche quelle più etichettate a sinistra, non è un caso, forse, che non abbiano un riferimento al radicalismo operaio. Così come nei nuovi quadri che queste culture esprimono (dai parlamentari di Grillo a una parte di quelli del Pd, dagli intellettuali un po’ giustizialisti ai dirigenti politici alla Civati, alla occupy Pd fino al novello guru Rodotà) – come ha scritto con parole sorprendentemente convincenti Galli Della Loggia – non c’è visione di classe bensì il sogno di una giuridicizzazione universale, di una normazione estesa a tutto. Nasce da questo perverso impasto, oltre che dai suoi errori soggettivi, la stessa drammatica sconfitta del Pd e la sua quasi implosione. Da una abitudine, ormai estesa nel Paese, a considerare i diritti in forma statica , più come un imperativo etico da adempiere che come il risultato di conflitti. Certo, le responsabilità in quello che sta succedendo che hanno le culture politiche più forti sono grandi. La più grande quella di avere sprecato tempo. Lo fa notare con esemplare argomentazione il filosofo Aldo Masullo replicando all’ intervista di Giuliano Amato al “Corriere” in cui l’anziano intellettuale socialista con linguaggio efficace e accorato rifletteva sulla difficile condizione odierna del Paese. Detto questo, però, adesso che facciamo? La risposta a questo interrogativo resta complessa. Anche per questo credo diversi protagonisti in queste ore provano, spesso anche alla cieca, a cercare delle strade. Lo fa Vendola, smarcandosi dal Pd al governo, chiamando a raccolta i suoi militanti in piazza e abbracciando simbolicamente Rodotà, cercando così di collocarsi in una qualche sintonia con parte di quella rivolta che di Rodotà ha scandito il nome nei giorni difficili dell’elezione del capo dello Stato. Lo fanno le aree, tra loro ormai mescolate, delle sinistre radicali più antagoniste che provano a stare insieme in qualche nuovo e inedito progetto. Lo fa lo stesso Landini chiamando a raccolta una parte di questi movimenti (più che operai metalmeccanici purtroppo, che nella loro maggioranza temo se ne staranno a casa) nella ennesima generosa e speriamo non sterile manifestazione romana. Ci prova anche il Pd eleggendo l’onesto Epifani alla guida provvisoria di un partito in subbuglio. Si tratta di tentativi magari anche utili ma che abbastanza chiaramente non si pongono davvero all’altezza del problema. Il mondo contemporaneo è percorso da fenomeni di portata inedita e sconvolgente che hanno sovvertito consolidate gerarchie geopolitiche e sociali. Si potrebbero fare molti esempi. Ma su tutto prevale il nodo delle nuove e più acute diseguaglianze.
E’ in questo pauroso salto all’indietro della storia che maturano il disagio ormai estremo, le rivolte diffuse, la vera e propria crisi, per quanto riguarda l’Europa, dell’era della democrazia politica. Non è un caso che a disputarsi la contesa sembrano essere rimaste sul campo ribellismi e neoliberismi. Ciò che ormai pare espunto è dunque il conflitto politico e sociale, le sue forme classiche che avevamo conosciuto e praticato in passato, le sue modalità di rappresentanza politica e statuale. Questo ci dice anche il massiccio voto popolare (e perfino operaio) di Febbraio al gruppo di Grillo e in parte al Pdl. Sbaglia chi pensa (con ingenua rozzezza o con sofisticata furbizia) che il problema riguardi solo il centro sinistra italiano e le sue debolezze di fronte alle avventure giudiziarie dell’uomo di Arcore. Questa tesi, ormai effettivamente di massa, è il frutto avvelenato di una lunga stagione in cui, certo anche in virtù degli errori a sinistra, si è diffuso un senso comune, appunto, troppo estraneo a una dimensione sociale. Ora di fronte alla terribile crisi economica che morde ai calcagni il Paese, di fronte alla caduta di ogni residuo principio di autorità cui ha concorso la fragile deriva di una politica in panne, e anche perché un po’ spinto da poteri economici intrigati e tentati di sussumere in se ogni ruolo, quel senso comune diffuso fa corto circuito con la stessa questione sociale ed esplode.
Una esplosione nel contempo utile (perché evidenzia, e con grande dirompenza, il problema) ma anche pericolosa perché tumultuosa e a rischio di essere del tutto priva di sbocchi, se non quello di rafforzare ulteriormente l’arbitrio della sfera economica sulla politica e sulla democrazia. E’ un problema italiano ma da cui non è estranea l’Europa. E ‘ a quel livello che resta essenziale provare a costruire risposte. Capiremo dalla direzione che saprà e potrà prendere l’integrazione europea se ce l’avremo fatta e se ce la possiamo fare. L’austerità, la centralità della finanza, una moneta senza integrazione politica, sono un modello di unione destinato a franare. Senza una decisa sterzata l’implosione europea è ormai certa. La storia non finisce neppure in quel caso ma le difficoltà, certo macroeconomiche e geopolitiche, ma forse anche più molecolari, che ne deriverebbero sarebbero immani. Un filo di speranza ancora resta attaccato alle forze residue dei socialisti e delle sinistre europee. Le repliche della realtà ne stanno disegnando una crisi. L’impopolarità in Francia, dove pure vi erano stati il successo socialista e un buon risultato a sinistra. Dell’Italia sappiamo.

E giorni difficili sembrano alle viste anche in Germania. Il rischio grande è che tutte le forze in qualche modo di matrice e derivazione marxiana siano destinate al declino. In un modo o nell’altro hanno incarnato il ciclo storico della democrazia politica, l’epoca post democratica che si apre tra fragorosi scoppi di ira e confuse rivolte ribelli rischia di metterne fuori mercato apparati culturali e strumenti. Ma il rischio è che con queste culture politiche vadano in soffitta per sempre anche le concrete speranze di ridare un valore al lavoro e la stessa ambizione di liberazione dalle sue costrizioni. Su questi due grandi ideali hanno vissuto le due grandi culture politiche della sinistra pur nella loro, a volte radicale, differenza. E’ tempo, nel panorama infernale e complesso di oggi, di rimetter mano a questi due antichi ma ineliminabili orizzonti. Anche da noi, al di là della contesa politica di superficie, è questo il nodo sul quale provare ad agire. La condizione del Paese, i suo blocchi sociali, il lavoro nelle sue forme odierne, la sua rappresentanza politica. Si capisce che non è un cimento semplice. Richiede comprensione di tanti eventi nuovi, esplorazione sociale molto intensa, anche attenzione alle risposte possibili che possono venire da chi, intanto, di volta in volta governa. E richiede anche un po’ di pazienza per processi che avranno bisogno del tempo storico necessario di maturazione, come ad esempio la conquista di una maggiore forza del lavoro vivo nei luoghi del mondo dove ora emigra la produzione grazie alla sua fragilità e al suo più basso prezzo. C’è tanto da fare, da lavorare, da pensare. La sinistra, sperabilmente una sola sinistra, se riparte da qui forse potrà inventarsi ancora un futuro.

VITO NOCERA

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