Una fetta di Recovery Plan alla ricca industria militare

La denuncia. Rete Italiana Pace e Disarmo: il parlamento raccomanda l’uso di parte dei fondi per l’acquisto di nuove armi. In un governo trasversale, anche il sostegno all'iniziativa lo è: si toglie ad altri settori per finanziarne uno che riceve già 27 miliardi

Una fetta di Recovery Plan anche per il settore militare. Lo denuncia Rete Italiana Pace e Disarmo: se le proposte della società civile su come spendere i soldi in arrivo dall’Europa per far fronte alla crisi non sono state ascoltate, la politica italiana ha preferito sedersi al tavolo con le principali aziende militari italiane e immaginare di girare a loro fondi destinati alla ripresa del paese.

«Una parte dei fondi del Recovery Plan – si legge nel comunicato rilasciato ieri da Ripc – verrebbe destinata per rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare. Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta».

Dietro – a fronte dell’audizione di rappresentanti dell’industria militare (Aiad, Anpam, Leonard) – stanno le relazioni votate negli ultimi giorni dalle varie Commissioni parlamentari competenti. La Camera raccomanda di «incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali».

Un modo, si legge, per contribuire «al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto». Identica la posizione del Senato che propone anche di realizzare «distretti militari intelligenti» che attirino investimenti ulteriori e che immagina di dar vita a un dialogo «con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca».

È così che il settore militare, già ampiamente finanziato dal governo (27 miliardi di euro, il 18% dei Fondi pluriennali di investimento attivi dal 2017 al 2034), entra nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. E lo fa garantendosi fondi europei per comprare altre armi.

«Chiediamo – continua Ripc – al governo che le proposte della società civile fondate sulla costruzione della convivenza e della difesa civile nonviolenta siano ascoltate, valutate e rese parte integrante del nuovo Piano». Le idee ci sono già, sono le «12 Proposte di pace e disarmo per il Pnrr» di Ripc, già inviate alle Commissioni competenti, senza ricevere risposta.

Un cambio di passo rispetto alle previsioni del passato governo che inseriva il settore militare nel Pnrr attraverso aspetti secondari (tra cui l’efficienza energetica degli immobili della Difesa e il rafforzamento della sanità militare). Con un esecutivo formato da anime molto diverse e con il ritorno nei ministeri di rappresentanti della destra, anche le Commissioni – quelle che hanno dato il primo via libera – introducono nuove priorità.

Limitandone altre: se si dà a qualcuno, si toglie a qualcun altro, la coperta non è infinita. L’altro sono gli investimenti per scuola, lavoro, sanità, ecologia, un settore quest’ultimo che di certo non beneficerà dall’acquisto e l’uso di nuovi armamenti.

Il sostegno politico è «trasversale», scrive Rete Italiana Pace e Disarmo, a fondi che potrebbero allargarsi ancora di più: «Addirittura alla Camera i commissari hanno concentrato il loro dibattito sulla “opportunità” di accrescere ulteriormente i fondi a favore della spesa militare fornita dal Piano. Da notare come il rappresentante del governo abbia sottolineato come i pareri votati “corrispondano alla visione organica del Pnrr” dello stesso esecutivo Draghi, che dunque ritiene che la ripresa del nostro Paese si possa realizzare anche favorendo la corsa agli armamenti».

EMMA MANCINI

da il manifesto.it

Foto di Sergio Gridelli da Pixabay

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Politica e società

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