In questa tragedia immane la geopolitica della solidarietà si è spaccata in due. Tutti i soccorsi occidentali che si stanno approntando vanno in Turchia, pochissimi, raggiungono la Siria.

In Occidente le ambasciate siriane sono chiuse, nulle le relazioni diplomatiche mentre le sanzioni europee e americane sono pervasive, il presidente degli Stati uniti Joe Biden non cita nemmeno la Siria nel suo discorso sul terremoto: neppure questa tragedia smuove la livorosa politica occidentale. Solo minoranze, laiche, cristiane, musulmane, qui rivolgono un pensiero a quel Paese ed è Sant’Egidio, non la politica, a chiedere la sospensione dell’embargo a Damasco.

La Siria vive almeno tre contemporanee tragedie: la guerra civile, che continua – come permane la presenza militare straniera – quella del terremoto e l’abbandono occidentale, colmato solo parzialmente dagli aiuti di russi, iraniani, iracheni, che sostengono al potere Bashar Assad.

A tutto questo si aggiunge la chiusura delle frontiere dal lato siriano controllato dalla Turchia, che ospita circa tre milioni di profughi siriani, e ha appena proclamato lo stato di emergenza per tre mesi: da qui, da un unico valico, passavano finora gli aiuti delle agenzie Onu alle popolazioni siriane lungo un confine che da tempo rappresenta come disse papa Francesco «una guerra mondiale a pezzi». Qui abbiamo i curdi, che combatterono contro il Califfato, poi lasciati alla vendetta di Erdogan, qui ci sono i jihadisti al Nusra, Al Qaida e Isis, che controllano sacche di territorio come Idlib, colpite nelle scorse settimane anche da un’epidemia di colera, di cui non avevamo notizia se non da organizzazioni come Medici Senza Frontiere .

Se è vero che in Siria ci sono le basi russe e dei pasdaran iraniani, Biden non può fare finta di ignorare che gli Usa sono presenti militarmente nel Paese dal 2014 nella Siria nord-orientale e nella base di Tanf, a sud-est, oltre naturalmente a fare la guardia ai pozzi petroliferi di Deir Ez Zhor per privare di risorse il regime di Damasco. Washington ha determinato le sorte di tutte queste popolazioni aiutando prima i curdi contro l’Isis e poi lasciando che Erdogan li martellasse con l’aviazione occupando Afrin e attaccando anche il Rojava, l’unico esperimento politico laico e pluralista della regione.

Ma per gli Stati Uniti e per Israele (che occupa il Golan siriano dal 1967) la Siria rappresenta soprattutto una sorta di poligono di tiro dove colpire le postazioni iraniane in una guerra di più vasta portata contro Teheran, il maggiore alleato di Assad insieme a Mosca e agli Hezbollah libanesi. Ora proprio dal Libano – travolto da una crisi profondissima e che ospita già più di un milione di rifugiati siriani – possono arrivare gli aiuti occidentali da affidare alle Ong che hanno accordi con il regime di Damasco. Speriamo che a questa complicata eventualità dia seguito qualche governo di buona volontà.

La geopolitica e il terremoto stritolano le vite delle persone colpite dalla guerra. Alla frontiera tra Turchia e Siria si sta giocando da tempo la sorte di milioni di profughi siriani, un destino già disperato che aveva subito di recente un sorta di accelerazione improvvisa. Erdogan, in serie difficoltà economiche, da tempo si vuole liberare di loro mentre i miliardi di euro versati da Ankara dall’Ue non bastano più a soddisfarlo. Infatti prima della fine dell’anno era accaduto un evento rilevante, per lo più ignorato dai media. A Mosca si sono incontrati il ministro della difesa russo, il turco e quello siriano.

E’ stata la prima volta in oltre un decennio che un ministro della Nato, di cui la Turchia è membro dagli anni Cinquanta, parlava ufficialmente con un alto rappresentante siriano. Secondo le fonti di Damasco, per altro non smentite, la Turchia sarebbe disponibile a ritirarsi dal territorio siriano occupato mentre, in cambio, la Siria si riprenderebbe indietro i profughi mettendo sotto controllo il Pkk e i curdi del Rojava. L’intesa per Erdogan, in vista delle elezioni di giugno, aveva un forte valore propagandistico presso l’opinione pubblica turca ormai ostile ai rifugiati siriani. Ma il terremoto adesso ribalta le carte sul tavolo.

Erdogan sa perfettamente che sul sisma si gioca la sopravvivenza politica. Ha preso in mano direttamente le operazioni della protezione civile e gestisce gli aiuti internazionali perché ovviamente nessuno deve fare ombra al reìs.

Certo per lui sono settimane decisive perché, come spiegavano ieri sul manifesto Murat Cynar e sulla Stampa la giornalista Esma Cakir, prenderanno quota le polemiche sull’urbanizzazione selvaggia e l’edilizia priva di misure anti-sismiche. Centinaia di migliaia di turchi non possono rientrare nelle loro case, non possono lavorare e sopravvivere: e il reìs per tenerli a bada non può usare stavolta i metodi repressivi del suo ex amico, l’autocrate Assad.

Ma il terremoto, che si aggancia alla guerra in Ucraina, porta altre conseguenze. La Russia – cui Ankara non ha imposto sanzioni, opponendosi anche all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia – è diventata il maggiore partner della Turchia (+45% il commercio bilaterale): dal gas, al grano, a investimenti diretti stimati dal Wall Street Journal tra i 5 e i 10 miliardi di dollari.

Il sisma restringe le prospettive di Erdogan e Putin mentre gli Stati Uniti eserciteranno pressioni sul Sultano dell’Alleanza atlantica, il più riottoso degli alleati Usa (presenti in Turchia a Incirlik la base strategica con i missili nucleari) che in questo momento aiuta militarmente Kiev ma gioca con Mosca da battitore libero.

Ecco uno dei tanti frammenti acuminati della partita sulla vera e presunta solidarietà internazionale che si gioca sulla pelle dei terremotati.

ALBERTO NEGRI

da il manifesto.it

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