Obama, coerente col passato, deludente nel futuro

“Non è incominciare a svolgere l’accusa, ma concludere il mio dire, o giudici, che mi pare impossibile.”. Così Lisia si rivolge alla magistratura ateniese dell’epoca per iniziare la sua...

“Non è incominciare a svolgere l’accusa, ma concludere il mio dire, o giudici, che mi pare impossibile.”. Così Lisia si rivolge alla magistratura ateniese dell’epoca per iniziare la sua arringa contro Eratostene, uno dei celebri Trenta Tiranni.
E così possiamo noi iniziare delle brevi note per descrivere non proprio una messa in stato di accusa, ma almeno un bilancio storico-politico dell’epoca di Barack Obama che si conclude con un discorso fatto davanti all’assemblea delle Nazioni Unite e che avrebbe voluto essere nel solco del Nobel per la Pace ricevuto tempo fa dal presidente americano.
Obama spende parole di elogio per la democrazia, ma noi sappiamo di che democrazia si tratta: siamo quasi sempre davanti ad una forma di concezione del potere popolare che non deriva dal basso ma che viene esercitato con la delega rappresentativa che fa apparire decisionismo ciò che invece è uno scontro tra grandi poteri economici, tra le famose “lobby” siano esse del petrolio, delle armi o risiedano, invece, in alti palazzi dove si gestiscono affari di borsa e contrattazioni speculative sulla pelle della “middle-class” e del proletariato moderno della Repubblica stellata.
La democrazia americana è molto lontana da quella dell’Atene di Lisia, cancellata con varie guerre da oligarchie (i Quattrocento prima e i Trenta Tiranni poi) che avevano a cuore non il bene comune ma gli interessi privati di una aristocrazia che, comunque si voglia intendere i fatti storici, è sempre esistita come minaccia alla partecipazione veramente popolare della gente comune nella gestione del potere.
Barack Obama, dunque, all’ONU fa l’elogio della sua democrazia e la declina con il nome di “liberalismo” contrapposto al potere dell’uomo solo al comando. Molti hanno interpretato questa frase come espressamente riferita a Vladimir Putin e alla Russia che “vuole riconquistare il prestigio con le armi”.
Per un comunista che mette al di sopra di tutto la libertà sociale e civile collettiva e singola non può esservi ammirazione per un “uomo solo al comando”: Vladimir Putin non è il difensore di un nuovo socialismo reale contro l’impero americano (che resta un impero, perché rimane espressione diretta dell’imperialismo che esercita nel mondo) e che, quindi, non è un modello di libertà contro un modello di tirannia.
Inoltre è sempre bene evidenziare che non esistono modelli di concretizzazione dei princìpi egualitari del comunismo oggi, nemmeno a Cuba o nel Vietnam dove vi sono non solo contraddizioni vistose su questo piano ma aperture, probabilmente contingenti e necessarie al capitalismo e alle sue leggi economiche in nome della sopravvivenza di determinate fasi sociali che rappresentano comunque la punta più avanzata di una stabilizzazione egualitaria però molto lontana dal potersi affermare come società alternativa al capitale stesso.
Non si sa da che parte guardare: verso Est vuol dire strabizzare e stravolgere completamente i valori di una aspirazione ad una società libera, libertaria in nome di una riproposizione, nei fatti, di una nuova guerra fredda tra Oriente e Occidente; verso Ovest vuol dire riproporsi la ricetta liberista classica, potenziata dal sempre mai sopito istinto primatista americano secondo cui la morale, la giustizia e il diritto degli Stati Uniti sono “da esportazione”, un modello per tutto il mondo che non ha conosciuto la democrazia.
La vicenda siriana ci dimostra apertamente che questo contrasto esiste e che quando una alternativa vera alle parti in causa viene crescendo spontaneamente e liberamente nelle truppe curde, tra una popolazione slegata da interessi geopolitici e aspirante solo a conquistare una indipendenza assoluta “tanto dall’uno quanto dall’altro” (avrebbe detto Marino, il tagliatore di pietre rifugiatosi sul monte dove fece nascere la più antica repubblica d’Europa ancora esistente), la si restringe nelle sue potenzialità, si prova a schiacciarla, ostacolarla con gli intermediari che si hanno in zona: Erdogan ha svolto mirabilmente questo ruolo, acquistando petrolio dal Daesh e bombardando ripetutamente le milizie curde dell’YPG mascherandosi dietro il suo aspetto democratico, appunto, che puntava a “reprimere il terrorismo”.
Barack Obama, dunque, parla all’ONU ma non spiega come mai Guantanamo Bay ha ancora aperto un carcere-lager che sarebbe dovuto essere chiuso molti e molti anni fa.
Il suo lascito in politica estera non è poi così dissimile da quello dei suoi predecessori: la creazione del Daesh, la finzione della lotta per la democrazia nel Medio Oriente sono estensioni di nuove pratiche e prove di guerra di posizione per il potere e per il dominio economico. Così avviene anche in Libia.
Al centro d’ogni mossa, studiata a tavolino negli uffici del Pentagono, c’è sempre in sottofondo la scena principale: salvaguardare e ampliare gli interessi degli Stati Uniti in materia di petrolio, gas e oleodotti.
E’ proprio difficile, come sosteneva Lisia, chiudere una riflessione su tutto ciò. Del resto, in qualche modo la democrazia americana dovrà pur sopravvivere per mostrare al mondo come si fanno i veri affari.

MARCO SFERINI

21 settembre 2016

foto tratta da Pixabay

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