La sciarada eterna della compresenza tra Dio e il Male

Centrale nel pensiero agostiniano è il tema del male. Di per sé è un dilemma che il Manicheismo risolve come parte della dualità di cui è pervaso il mondo,...

Centrale nel pensiero agostiniano è il tema del male. Di per sé è un dilemma che il Manicheismo risolve come parte della dualità di cui è pervaso il mondo, mentre nella patristica cristiana si presenta come un vero e proprio problema filosofico-religioso che, senza essere mai del tutto risolvibile (anzi molto poco anche dal punto di vista fideistico), ha, forse anche per questo, esercitato un grande fascino sul piano dell’esegesi meticolosa fin dentro i più remoti angoli dell’Antico Testamento biblico, per arrivare alle più moderne considerazioni sul senso della presenza di un dio innanzi all’orrore di Auschwitz.

Iniziamo col considerare il male non come questione prettamente ontologica, quindi come essenza costituente dell’essere umano in quanto tale, ma come individuazione di una serie di caratteristiche dell’umanità che, a seconda delle circostanze, emergono ora in bene e ora invece in male. Non siamo costituzionalmente malvagi. Ma possiamo esserlo perché possiamo divenirlo. Quindi, potenzialmente, noi agiamo tanto in un verso quanto nell’altro, oppure ci estraniamo dall’interesse per la vita quotidiane e sociale e, atarassicamente, ci poniamo in uno stato di contemplazione degli accadimenti.

Bene e male sono la sottolineatura adulta di sentimenti e propensioni che, fanciullescamente, si ritrovano nella percezione ancestrale della gioia o del dolore. C’è alternanza, quasi sempre, nei sentimenti: non si potrà mai essere al contempo arrabbiati e felici, oppure tristi e allegri, o ancora crudeli e benevoli. Le nostre manifestazioni emotive e le nostre azioni sono il frutto anche di scelte determinate da una coscienza che obbedisce – in buona parte – all’essere sociale di noi stessi, molto bene evidenziato da Marx; ma sono anche la conseguenza, il prodotto di interazioni che possono prescindere dall’esclusiva materialità del contesto in cui viviamo.

Certe emozioni, anzi, le conserviamo in noi stessi e ne siamo gelosi custodi. Sono quelle più preziose, quegli scrigni in cui teniamo la vera essenza, piuttosto inconscia, oppure ciò che ci appartiene primordialmente e che, in quanto tale, sentiamo intrinsecamente parte di noi, quasi incondivisibile con il resto del mondo. Hillman ne parlerebbe come della ricerca della trasformazione interiore che agisce, più che su nostro impulso cosciente, mediante noi e ci dirige e ci costruisce giorno per giorno ciò che siamo e che, sovente, trascuriamo di considerare di essere.

Bene e male fanno parte di questo inconscio che, però, per Agostino è quell’anima che si è trasformata dal semplice soffio psichico di matrice ellenistica. La pedagogia cristiana, del resto, ha soppiantato tutto il vecchio mondo della cultura individuale e sociale che conferiva prima di tutto ai bambini il ruolo di futuri adulti. Nel Nuovo Testamento, nei Vangeli canonici, Gesù capovolge questo concetto e vede la possibilità della perdita dell’innocenza proprio con l’abbandono della fanciullezza che, quindi, è lo stato preferito dell’individuo: la purezza dei bambini è preferibile per i cristiani alla complessità degli adulti.

Bisogna, per i pensatori e teologi cristiani della Patristica e della Scolastica, impostare la nuova pedagogia sociale su questa novità che è insegnamento della percorrenza della via del bene, contro un male che rimane un absurdum visto che, per dirla sempre con Agostino: «Si est deus, unde malum?». Siccome Dio è amore pieno e assoluto, prescinde dal male e il male prescinda da lui. Ma il male, oggettivamente, esiste. Quindi la domanda susseguente è questa: perché Dio permette, perché tollera l’esistenza del male? Filosoficamente parlando non ci si aspetti una soluzione a questo enigma.

Teologicamente il primo rifugio possibile è, nel rapporto dialettico tra fede cattolica e culti considerati eretici, ovviamente perché mettevano in discussione il primato della Chiesa su questo oltre che su molti altri temi di natura storico-religiosa (e quindi con tutte le ripercussioni possibili sul piano politico e sociale): il manicheismo, come già accennato, fonda nel dualismo la coesistenza degli opposti. Il cristianesimo, non certo a partire da Agostino, ma soprattutto ad iniziare da lui, riprende la questione delle controversie morali di una religione che descrive la divinità come emanazione soltanto del bene.

Il dio del Vecchio Testamento è vendicativo, incenerisce, distrugge, annega il mondo. Ma, la risposta profetica è: lo fa sempre a fin di bene, per purificare l’umanità dai peccati, per far rinascere una nuova era di giustizia, di bellezza, di bontà, di fratellanza universale. Però la questione è ancora più a monte: sta proprio nel fatto che l’onnipotenza divina, seguendo la ragione umana in questo scervellarsi sulle idiosincrasie tra etica e culto, tra laica propensione al bene qui ed ora e aspettativa del premio ultraterreno, dovrebbe escludere volontaristicamente il male dal mondo e, quindi, dall’esistenza dei viventi.

Agostino prova a discuterne con i manichei e anche con i seguaci di Pelagio, oltre che con il monaco irlandese stesso. È una immersione nella disquisizione adamitica, sul concetto di “peccato originale” e del fatto che tutti gli esseri umani che sono venuti dopo i progenitori dell’Eden, abbiano ereditato questa maledizione. La damnatio è un argomento che potrebbe essere rovesciato entro gli stessi termini posti dalla canonicità dei ragionamenti ecclesiastici ufficiali della Chiesa: perché mai ogni essere umano non dovrebbe essere pienamente responsabile della sua condotta su questa terra e in questa vita?

Perché dovrebbe nascere con un peccato che non ha commesso di per sé? Perché questa ereditarietà peccaminosa se non per, almeno così sembrerebbe dedurne, disegnare un progetto di salvazione affidato esclusivamente a Dio e sottratto quindi all’essere umano? Forse una parziale spiegazione, sempre e comunque entro i limiti della finalizzazione teleologica di quanto stiamo scrivendo, è data dal fatto che tocca all’uomo e alla donna somigliare a Dio per ottenere un viatico di grazia e di salvezza. Per quanto noi ci affanniamo a fare del bene, sostengono i padri della Chiesa, non esiste possibilità di elevazione al di sopra della soglia del peccato originale se non nella ultima volontà divina nei nostri confronti.

Tutto si comprende dentro Dio e al di fuori di lui ogni cosa, ogni anche benevolissimo atteggiamento finisce con l’essere parzialissimo, seppure necessario per riuscire a garantirsi almeno una possibilità di remissione dei peccati e di cancellazione della percentuale di quello originale che ci tocca non appena nati. Il cristianesimo, a differenza della cultura ellenica, non individua nell’apprendimento e nella coscienza dell’esistente il viatico per un miglioramento della propria condizione spirituale. La conoscenza, il sapere, la cultura non salvano, anzi, aumentano il dolore, perché rendono ancora più evidente la divergenza che c’è tra la perfezione divina e la finitezza umana.

Bene e Male, quindi divengono quindi il contesto fenomenologico in cui si muove la dialettica tra umanità creata e Dio creatore. La prima sceglie la via del peccato e del male. Il secondo è per definizione amore e bene incondizionato, incommensurabile ed eterno. Dio è, del resto, il capovolgimento esatto di ciò che l’essere umano è la rappresentazione di ciò che vorrebbe essere: perfetto, onnisciente, onnipresente, infinito nel tempo, vivente per sempre, non soggetto al male della morte che, infatti, il cristianesimo dichiara sconfitta mediante il sacrificio di Gesù, morto e risorto per redimere l’umanità dai peccati.

Il Male con la emme maiuscola non è quindi, soprattutto per Agostino, una alternativa al Bene. Ma è quell'”assenza di bene” che richiama platonicamente il contrasto tra idee positive e idee negative. Il rifiuto della consistenza ontologica del male è, tanto nel filosofo ateniese quanto nel vescovo di Ippona, la descrizione molto attenta dello stesso come assenza del bene. Il viceversa non esiste. Il bene è imprescindibile, dal male invece si può prescindere, incamminandosi in questo modo sul sentiero della salvazione, dell’etica cristiana che è tutta protesa alla ricerca dell’amore di Dio.

Del resto, il cristianesimo uniforma tutto al concetto di “amore“. A partire dal rapporto pedagogico tra maestro e scolaro che, nonostante lo si possa pensare come una condivisione equipollente di esperienze, non prescinde dal principio dell’autorità. Sono gli stessi Vangeli canonici a descrivere l’attività di Gesù in merito. Ammonisce Matteo (23,10): «E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo», che parla traendo l’autorità da sé stesso, in quanto depositario della Verità (quella vera e non una delle tante…), perché figlio di Dio.

Da questa autorità la Chiesa trarrà l’autorevolezza per diventare “docente“, per farsi depositaria della parola divina ed unica interprete sulla Terra. Se questo sia stato un bene o un male è lasciato alla lettrice e al lettore il giudizio. Di sicuro, il dogmatismo ecclesiastico, se vogliamo almeno afferire alla parola bene il concetto di libertà (e viceversa), non ha rappresentato in sé e per sé la quintessenza del Bene propriamente inteso. Il Male è costrizione, perché la costrizione è in un certo modo sempre sofferenza. Se siamo costretti a fare qualcosa, siamo quindi messi non davanti ad una scelta ma ad una imposizione.

E l’imposizione è annullamento della volontà. Per quanto questa rischi di essere fuorviata spesso da false speranze di libertà e di scioltezza dei pensieri e dei sentimenti, dei comportamenti e delle relazioni, sempre meglio sbagliare volontariamente che essere costretti a fare qualcosa svilendo le nostre pulsioni, frustrando i nostri desideri, sopprimendo il nostro istinto. Agostino, nella foga delle tante repliche alle teorie pelagiane, scadrà dall’alto dei suoi fini ragionamenti in un atteggiamento crudamente dogmatico riguardo al Male ed al peccato originale.

Non esiste, ad un certo punto dei suoi scritti, la possibilità del riscatto dalla dannazione per l’essere umano. Soltanto Dio è principio unico di concessione della salvezza per alcuni che Agostino definisce “predestinati“. Una manna per i seguaci di Pelagio che obiettarono al vescovo di essere ricaduto nelle sue prime posizioni manichee. Ma, del resto, la Chiesa si tenne equidistante, in quella diatriba, tanto dall’intransigenza agostiniana sulla redenzione, sulla grazia e sulla salvezza degli esseri umani, quanto dall’esclusione degli stessi dal fardello adamitico del peccato originale.

Il problema del male, quindi, rimane insoluto, visto che la sua cancellazione, almeno ultraterrena e oltretombale, è affidata alla volontà divina. Non c’è dunque davvero speranza per noi di trovare il modo per escludere almeno il più possibile il male dalla nostra esistenza qui ed ora? Non possiamo rimproverare ai pensatori cristiani di aver pensato da monaci o da vescovi, di essere quindi stati uomini di Chiesa. Ne possiamo apprezzare le disquisizioni e, ugualmente, possiamo arrivare alla conclusione di non condividerne tanto le argomentazioni quanto le soluzioni che hanno inteso prospettare.

L’eterna lotta tra Bene e Male, se separata dall’ambito metafisico, si sostanzia come un dedizione da un lato e una perversione dall’altro; entrambe condizionate da una serie di congruenti influenze che nel corso della nostra esistenza subiamo, in quanto non possiamo mai veramente dire di essere “noi stessi” in quanto tali. Siamo la somma di esperienze precedenti e contingenti. Siamo divisione e moltiplicazione, addizione e sottrazione di pensieri, esperienze, fenomeni empirici e astratte idealità che ci condizionano e ci inducono a pensare, fare in un determinato modo.

I credenti attribuiscono questo susseguirsi di rapporti nella volontà divina che tutto permeerebbe. I laici possono, pur credendo in un dio qualunque o pensando che possa esistere, quindi ipotizzandolo, dedicarsi al bene come base di una condivisione di reciprocità che si ispirino al rispetto della libertà universale in quanto libertà condivisa tra tutte e tutti. Fare il bene, quindi assentarsi dal fare il male, è anche una scelta. Ma, soprattutto, è una decisione consapevole che rientra nell’etica di chi disinteressatamente fa ciò che ritiene più giusto.

Non quindi con l’aspettativa di ottenere nell’aldilà un premio di salvazione, grazia e vita eterna, ma comportandosi, seguendo proprio le parole di Gesù, in modo tale da non fare agli altri ciò che non vorremmo mai venisse fatto a noi. A tormentare questa profondità etica dell’essere umano è proprio la perversione del potere, dei rapporti di forza economici, della ricerca di una esistenza migliore per sé stessi a scapito di altri. Qui il male è sinonimo di ingiustizia sociale.

L’opera profetica di Gesù di Nazareth, del resto, è stata tutta rivolta all’insegnamento di una necessità di giustizia anzitutto sociale: dalla parte dei più derelitti e deboli, dei bistratti, degli emarginati e di quelli che venivano additati come reietti. In questo senso possiamo anche dirci “cristiani“. Come possiamo dirci “spartichisti“. Perché là dove c’è la rivolta contro il dominio e l’oppressione, là la lotta tra il Bene e il Male entra nel vivo e, in un eterno ritorno nietzschiano, rinverdisce la Storia umana nei secoli dei secoli.

MARCO SFERINI

26 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria, Pelagio ed Agostino

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Il portico delle idee

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