Il tè amaro di Corbyn

Per i moderati di pseudo sinistra di casa nostra, la sconfitta del Labour e la tronfia ascesa dei Tories in quelle che la gente del popolo fermata ai seggi...

Per i moderati di pseudo sinistra di casa nostra, la sconfitta del Labour e la tronfia ascesa dei Tories in quelle che la gente del popolo fermata ai seggi dai cronisti venivano definite “elezioni storiche“, è colpa dell'”idealismo” di Jeremy Corbyn e non invece della martellante campagna mediatica che ha invaso il Regno Unito mostrando e dimostrando che questa era l’ultima chiamata per affidare una maggioranza solidissima a chi il 31 gennaio del prossimo anno (quindi tra meno di due mesi) uscirà definitivamente dall’alveo dell’Unione Europea.

Il partito laburista, segnato profondamente da un programma socialdemocratico di tutto rispetto (in quanto tale), arretra come non era mai accaduto dal 1935: quasi peggio dei tempi in cui dominava il conservatorismo spietato di Margareth Tatcher e la lotta dei minatori si faceva sentire forte, decisa, tanto da raggiungere tutti gli angoli del mondo come sfida all’intransigenza della Lady di Ferro.

Jeremy Corbyn non è stato un “idealista“, come vogliono far credere i finti progressisti di casa nostra, un vecchio centrosinistra raffazzonato e con tanti pezzi cascanti che cerca di riabilitarsi stando al governo con una parte delle destre populiste.

Semmai, se si osserva una carta geopolitica che indica l’attribuzione dei singoli seggi nell’intera Gran Bretagna (Irlanda del Nord compresa, il che aggiunge problema a problema…), si evince che il Labour perde cinquanta seggi, tutti assorbiti da Boris Johnson nel nome della “Brexit“, e li perde nelle periferie, mentre mantiene una certa solidità nei grandi centri urbani.

Ciò significa che le grandi periferie delle metropoli come Londra avvertono il richiamo sociale del Labour ma sono poi le ruralità, le tante piccole espressioni del ceto medio a fare la differenza: un po’ come accadde – fatti i doversi distinguo – nel referendum pro o contro la monarchia in Australia di qualche tempo fa. Nelle città prevalse la repubblica e nella vastità forestale e di campagna del continente conosciuto per ultimo dal resto del mondo a vincere fu invece il mantenimento della corona britannica come forma dello Stato.

Per chi ha, anche solo timidamente, seguito le vicende britanniche in questi anni, risulta palese che Jeremy Corbyn abbia spostato a sinistra l’asse del Labour e, per questo, viene facile ora per i moderati della finta sinistra italiana definirlo come un “idealista“. Ma è altrettanto quasi intuitivo constatare che promesse di politiche più sociali e protettive dei diritti di lavoratori, precari e disoccupati, non hanno fermato la furia secessionista di Johnson nel cavalcare la tigre di un sovranismo che in Gran Bretagna non assume i toni che si ritrovano in Ungheria, Italia e Spagna; ma pur sempre di destra si parla, pur sempre di un programma di protezione dei privilegi padronali si tratta.

Il Labour non rappresenta assolutamente il volto politico di una sovversione dell’ordine costituito, non è un pericolo per gli investitori di borsa, ma la sua “Lexit” significava un processo di uscita controllata che avrebbe rovinato i piani di chi smaniava per ristabilire rapporti subitanei con gli Stati Uniti d’America di Trump.

Infatti, dalla vittoria schiacciate dei Tories emergono tutte le gioie dei grandi possidenti e della media borghesia che inneggia alla ripresa, dopo l’uscita dalla “gabbia” dell’Unione Europea, dei rapporti bilaterali tra Londra e Washington e ciò significa anche rafforzare l’asse politico sovranista: un vento che serpeggia in tutta Europa e che nemmeno la propaganda pro-millenials del Labour è riuscita a frenare tentando di attrarre (come in parte è riuscita a fare) il voto dei più giovani.

Vince, dunque il grande capitale, vince non l’indipendenza della Gran Bretagna dalla tirannia economica europea, ma la voglia di cambiare partner economici, di darsi nuovamente allo sguardo verso l’Atlantico, oltre l’oceano, fino alle rive delle colonie rivoluzionarie che diedero vita al grande sogno americano nato proprio da una rivolta contro le tasse di Sua Maestà.

I giornali italiani deridono Corbyn perché alzava il pugno chiuso al cielo e cantava “Bandiera rossa” (peraltro una versione anglosassone molto differente dalla nostra): secondo loro avrebbe perso per il suo spostamento estremistico a sinistra.

Lo sostiene anche Renzi, scimmiottando le vecchie litanie del fu Partito Democratico della Sinistra e dei DS, allorché si sosteneva che era sempre colpa di Rifondazione Comunista se il centrosinistra perdeva e che, in fondo, noi comunisti eravamo amici di Berlusconi e chissà quali sovvenzioni avremmo preso per determinare la caduta di proposte politiche che venivano battute invece sull’onda di un crescente consenso per esaltazioni di impossibili sogni di gloria per un Paese che invece, nella sua classe dirigente riciclata dal vecchio pentapartito, cercava una rinascita nella tutela dei privilegi che aveva rischiato di perdere.

La Gran Bretagna, dunque, ora si appresta ad affrontare l’addio all’Unione Europea: lo farà con tutta probabilità a gennaio e lo farà mettendo fine ad un balletto tra referendum vinti e poi contestati, tentativi di nuovi referendum e proposte sensate di uscita da una economia capitalistica di un certo tipo per tornare ad una vecchia impostazione di scambi commerciali che rivede l’isola che non viene invasa da oltre mille anni essere quel mondo a parte che è sempre stato e che, in effetti, stava stretta nel caotico assemblaggio rappresentato da Bruxelles e Strasburgo.

Non è una buona giornata quella odierna: qualunque giudizio si dia della politica di Corbyn e del Labour, i Tories hanno indubbiamente ottenuto una vittoria sull’onda di un sentimento popolare che, in parte, prescinde dalla difesa dei propri interessi di classe nel nome di un interesse generale, della nazione, che è un ennesimo trasversalismo, un modo per garantire i privilegi di grandi possidenti, degli scambi di borsa e per garantire altresì che nessun diritto sociale vedrà alcun avanzamento nei prossimi anni.

Uscire dall’Europa per finire tra le braccia di Trump non è una dolce prospettiva: qui non si trattava di votare il “meno peggio“, ma di sostenere davvero una linea politica e sociale differente rispetto alle mediocre ipocrisia del centrosinistra di casa nostra. Le emozioni, esacerbate da una propaganda becera, fomentate da un certo senso di patriottismo garantito dallo splendido isolamento britannico, hanno prevalso e hanno condizionato le scelte antisociali di una grande parte sociale dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda del Nord.

Diverso il discorso per la Scozia, che fa quasi raddoppiare i seggi del proprio partito indipendentista, mostrando che sono tanti gli spettri che ritornano col voto che incorona Johnson capo del governo con una maggioranza assoluta di voti e seggi.

Tanti spettri, tante incertezze, una sola sicurezza: a capitalismo europeo si sostituisce il capitalismo anglo-yankee. Un po’ come tornare a casa, dopo tanto, tanto tempo. Una virata a destra, un tè amaro per Corbyn e per tanti inglesi oggi alle cinque.

MARCO SFERINI

13 dicembre 2019

foto: screenshot

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