Il surrealismo della crisi e lo smarrimento dei comunisti

Surreale. E’ la strettissima sintesi, icasticamente posta così, che può davvero riassumere il caotico susseguirsi degli eventi che in quarantotto ore ha visto la politica italiana passare dalla richiesta...

Surreale. E’ la strettissima sintesi, icasticamente posta così, che può davvero riassumere il caotico susseguirsi degli eventi che in quarantotto ore ha visto la politica italiana passare dalla richiesta di messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica da parte di movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia al ripensare ad un dialogo col Colle che contempli anche l’allargamento della precedente maggioranza legastellata alla formazione di estrema destra di Giorgia Meloni. Andiamo per punti e con una certa, difficile ricostruzione dei fatti e un tentativo di analisi dei medesimi.

Verticalismi
C’è di che stupirsi, nel migliore dei casi, nell’osservare la spaccatura verticale che si è prodotta nella cosiddetta “opinione pubblica” in merito alla decisione del Presidente Mattarella di non accettare il nome del professor Paolo Savona come ministro dell’economia di quello che avrebbe dovuto essere il Governo Conte.
C’è di che stupirsi perché da una parte c’è una fetta di Paese che inneggia alla messa in stato di accusa del Capo dello Stato perché avrebbe obbedito ai dettami dei mercati europei e delle banche di riferimento, evitando un critico dell’Euro e della stessa Unione Europea, e costoro fanno riferimento all’area della contrattuale maggioranza di governo giallo-verde, pentastellato-leghista; dall’altra parte c’è una fetta di Paese che sempre inneggia alla messa in stato di accusa di Mattarella per il medesimo motivo pur non essendo dell’area politica facente riferimento alla maggioranza.
Da due parti si grida al colpo di stato bianco, alla dittatura dei mercati sulla politica italiana, al nuovo “nazismo tedesco” ispirato da ragioni non militariste ma economiche e così via dicendo.
E’ evidente che la seconda parte citata fa riferimento maggiormente alla sinistra, o a quello che ne rimane, e che pretende di difendere la Costituzione, così come ha fatto col referendum di quasi due anni fa in quel famoso 4 dicembre quando vinse il NO e la Carta fu salvata da uno stravolgimento che avrebbe condotto la Repubblica ad un passaggio da parlamentare a oligarchica.
C’è di che stupirsi di ciò: del fatto cioè che questa seconda fetta di Paese non riesca, a differenza del quasi obbligato schierarsi del popolo variegato dei Cinquestelle e di quello più omogeneo della Lega, a ragionare su piani che si intersecano e che pure rimangono differenti se si compie una analisi di quanto è avvenuto semplicemente con strumenti di critica marxista, quanto meno di critica sociale.
Se siamo consci che viviamo, apparteniamo e subiamo un sistema economico di economia di mercato, chiamato capitalismo, allora dovremmo anche essere consapevoli del fatto che a questo sistema tutto si uniforma e che la cosiddetta “struttura economica” gestisce le “sovrastrutture” politiche. Quindi l’economia comanda e la politica obbedisce.

Ragion di mercato
Dunque, si potrebbe dire, votare è inutile, perché governano sempre i mercati e qualunque proposizione di politica alternativa a quella voluta da banche e speculatori finanziari è praticamente impossibile da attuare.
Se così fosse, non avrebbe alcun senso nemmeno la ricerca di una alternativa attraverso la formazione di una politica organizzata in partiti e differenti forme aggregative tesa ad ostacolare i piani proprio della struttura attraverso certamente un potere più debole: quello politico.
Ma l’organizzazione politica è fondamentale nello sviluppo delle coscienze e, quindi, nella concretizzazione di quel processo materialistico che vede nella trasformazione continua dei rapporti di forza la chiave per poter sovvertire il tutto e cambiare a centottanta gradi lo stato di cose esistente.
Il momento elettorale non esaurisce certamente questa lotta in sé stesso e, anzi, sovente, vista la clamorosa incapacità delle comuniste e dei comunisti di darsi un obiettivo comune in termini di tattica quanto di strategia politica, riesce ad essere pienamente utilizzato dai mercati che trovano sempre meno contraddizioni davanti a loro, sempre meno obiezioni, poche critiche scientifiche e sempre e solo anatemi che a poco o niente servono se non a creare un moderno luddismo anti-istituzionalista che vorrebbe prescindere dall’importanza della gestione della res publica laicamente intesa, propriamente detta e unicamente concepita come luogo di formazione del bene comune.
Non mi sono affatto stupito che il Presidente della Repubblica abbia respinto il nome di un ministro euroscettico. Mi sarei stupito se l’avesse accettato. Perché la logica entro la quale si muove un uomo di lunga tradizione democratico cristiana e liberale come Sergio Mattarella, che quindi non ha il punto di vista di un comunista in tutto ciò, è quella della conservazione del quadro dinamico della politica italiana dentro il contesto economico europeo dato come è oggi: magari provando a correggerlo, a temperarne gli eccessi se si tratta di difendere le prerogative capitalistiche italiche, ma pur sempre accettando il quadro dove si dipinge l’intera tela.
Formalmente il Capo dello Stato si è mosso nel pieno rispetto della Costituzione repubblicana: la discrezionalità che ha la figura del Presidente nella nomina dei ministri è molto più ampia di quella che possiede nella nomina del Presidente del Consiglio dei ministri.
La Costituzione non è interpretabile in merito. E’ icastica, netta e non consente altro se non prendere atto che la nomina dei ministri spetta al Presidente e che questa volontà può anche essere ispirata da ragioni politiche e, quindi, da opinioni politiche che nascono da valutazioni fatte sulla base del concetto di bene nazionale che il Capo dello Stato ha in sé.

Forma e norma
E’ del tutto evidente che queste valutazioni sono personali e che quindi le ragioni per cui vengono espresse possono legittimamente non essere condivise, ma non vi è assolutamente nessuna violazione delle norme costituzionali: semmai si può maledire il fatto che la forma delle norme può, anche indirettamente, proteggere interessi che vanno contro quelli prettamente popolari, ma si deve tenere sempre conto che una istituzione risponde al contesto in cui il Paese vive. E il contesto si chiama, lo si voglia o no, Unione Europea.
Dunque, lo stupore sul comportamento politico di Mattarella può anche trasformarsi in indignazione, ma per evitare che si possa ripetere occorre dare alla forma delle norme costituzionali un tratto politico che nasca da una diversa cultura sociale: non si tratta di preferire un ministro ad un altro, ma di cambiare la società per uniformare l’egualitarismo che promana dalla Costituzione ad una aderenza concreta, reale.
La norma, dunque, si scontra con una quotidianità fatta di ingiustizie, di vessazioni, di protezione di privilegi. Tutte peculiarità del sistema capitalistico che nulla hanno a che vedere con il comportamento costituzionale del Capo dello Stato.
Per questo si può essere in disaccordo – come lo sono io – sul NO di Mattarella, ma non si può far discendere da ciò un presunto tradimento dei valori costituzionali che vengono declinati sul versante liberale della Carta e non su quello della protezione sociale.
Quando si chiama un governo “governo del cambiamento” è naturale che chi lo osteggi, con motivazioni anche opposte, diventi un “nemico del cambiamento”. Le parole fanno danni incommensurabili se vengono assolutizzate. La prepotenza politica con cui si è voluto imporre al Quirinale il nome sgradito di un ministro dell’economia, ogni ora che passa, si mostra sempre più come un pretesto per forzare una decisione, per obbligare il Capo dello Stato a fare una scelta contraria e respingente pur avendo detto di sì a tutto il resto del pacchetto governativo presentato da Conte a nome di Di Maio e di Salvini.
Le argomentazioni, per difendere o attaccare quanto è avvenuto dai differenti campi e punti di vista, sono molte ma non cambiano il risultato provocato da una equazione irrisolvibile perché così si voleva che fosse.
Fingere di voler creare un governo e provare a creare un casus belli per rendere responsabile un terzo davanti al Paese nell’aver impedito la nascita del “governo del cambiamento”. Ecco chi è il nemico del cambiamento!

La rivoluzione inesistente
C’è di che stupirsi, ancora, per la generale credulità sulla potenza innovatrice (che non significa affatto “rivoluzione” dell’esistente, quindi capovolgimento del miserevole stato di sopravvivenza di milioni e milioni di italiani) di un governo formato da due forza di destra che sarebbe stato critico verso Bruxelles ma che non avrebbe messo in discussione trattati o formulazioni di assi politici interstatali che si stavano già palesando proprio mentre il Presidente francese Macron telefonava a Conte per esprimergli il suo sostegno. Una telefonata di cortesia? Anche, ma pure un modo per dire senza infingimenti che l’Italia era sotto osservazione e che i margini di manovra dell’esecutivo in quanto a sganciamento dai parametri europei sarebbero stati limitatissimi.
C’è poco da disquisire: viviamo nel sistema delle merci, del mercato, delle banche e dello sfruttamento del lavoro dell’uomo sull’uomo. Questo sistema è alimentato dalle politiche liberiste della Banca Centrale Europea che regola il capitalismo continentale e i rapporti tra gli Stati.
I nuovi cosiddetti “sovranisti” sono una categoria politica effimera perché pretende di ridare egemonia al ruolo dello “stato-nazione” in un contesto sovranazionale senza un accordo preventivo con le altre nazioni.
C’è un’unica via di uscita a tutto ciò: smetterla di credere alle presunte volontà e potenzialità rivoluzionarie di forze conservative (e conservatrici per altri versi) come Lega e Cinquestelle. Accorgersi che sono organiche e perfettamente inserite nella logica dei mercati. Magari non quelli di Bruxelles, ma comunque e sempre agenti nell’ottica dell’economia dello sfruttamento della forza-lavoro che accetta la povertà come elemento strutturale, perfettamente “economico”. Dinamico, certo. Maggiore o minore a seconda dei momenti e delle oscillazioni dei mercati. Ma la accetta. Così come accetta la ricchezza di pochi, degli “imprenditori”. Ossia dei padroni.

I valori da proteggere
La sinistra comunista deve sapersi fare interprete delle esigenze di costruzione di un fronte che muova su due ambiti correlabili fra loro: la difesa della Repubblica come luogo istituzionale più avanzato per la realizzazione di un programma di egualitarismo politico che provi a rovesciare questo sistema nell’organizzazione dei lavoratori e degli sfruttati all’interno del processo produttivo (e improduttivo) e il collegamento di questa battaglia di laicità quasi giacobina ad una ripresa della coscienza critica verso un sistema economico che va al di là della semplice contestazione di fenomeni correlati al capitalismo come la corruzione, la disonestà, il ladrocinio, la ruberia ai fini della protezione dei privilegi delle classi dominanti.
Difesa della Repubblica e della sua Costituzione su un piano culturale di critica sociale, di critica marxista. Difficile da diffondere vista la disinformazione dilagante nel regime di analfabetismo politico di ritorno che avanza prepotentemente sull’onda del populismo. Ma non impossibile.
Diventa impossibile se i primi a non mettere in sinergia questi due aspetti di lotta siamo proprio noi. I critici senza se e senza ma del capitalismo che hanno il dovere di proteggere i valori dell’egualitarismo che nessuno più individua in Italia (e non solo) come cardine di uno sviluppo di politiche conseguenti: di giustizia sociale.
Senza rimettere in discussione i percorsi fino a qui fatti, con la prospettiva di un governo a trazione leghista, con dentro la peggiore tradizione della destra italiana, qualora Cottarelli abbandonasse per far riaprire i giochi a Salvini e Di Maio nella Canossa del Quirinale, non può dirsi al sicuro nessun ambito della democrazia repubblicana.
Per questo Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Italiana e perfino Articolo 1 – Mdp devono aprire un tavolo di dialogo su una fase di crisi non solo meramente politica ma istituzionale, di sistema che non si verificava da tempo immemore in Italia.
Non bastano le singole ragioni a dare forza ad una azione di opposizione concreta a tutto questo monoblocco anticulturale di destra che ha invaso società (in)civile e potere politico: rappresentati e rappresentanti si riconoscono nell’esigenza di uno slogan declinato in chiave positiva ma invece intriso di intolleranza. Quel “Prima gli italiani” che è privilegio contro il diritto, che è affermazione di un diritto per alcuni, per diritto di nascita contro altri per colpa di provenienza.
Il razzismo istituzionale nega alle radici l’uguaglianza costituzionale. Proteggere i valori di uguaglianza, rimettendo in campo la contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori e non tra differenti colori della pelle in quanto a rivendicazioni sociali, è compito della sinistra di alternativa. Un compito che non si concilia con la voglia di governismo o quella di ricostruzione di un centrosinistra che limiti i danni già ampiamente fatti dal PD.
Il PD è una delle tre destre, quella di espressione economica e non si combattono le destre populiste e sovraniste alleandosi con una terza destra. Il tempo dello smarrimento politico deve terminare. Il dialogo può essere recuperato facendo tabula rasa del recente passato. Con un impegno fatto di disposizione all’abbandono del preconcetto e del pregiudizio politico. Da parte di tutti. Di tutti quei pochi che vogliono battere le destre: tutte le destre.

MARCO SFERINI

29 maggio 2018

foto: screenshot tratto da You Tube

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