Il primo Bassani, scatto della memoria in stile voluttuoso

Novecento italiano. Gli Etruschi, il femminino, le leggi razziali... Una città di pianura, libro d’esordio (1940) dello scrittore ferrarese che Officina Libraria ora ripropone, rivela un apprendistato letterario imbevuto di Proust

Molti anni prima che Cormac McCarthy scrivesse la terza parte della sua Border Trilogy, un giovanissimo Giorgio Bassani pubblicava sotto pseudonimo – il pirandelliano Giacomo Marchi – cinque racconti con un’appendice lirica e un’intestazione simile a Cities of the Plain: il titolo complessivo è Una città di pianura e la raccolta annovera in sequenza Omaggio, Un concerto, Rondò, Storia di Debora, il pezzo eponimo preceduto dalla poesia Ancora dei poveri amanti (quattro quartine a rima incrociata). Il volume è pubblicato nel 1940 – Bassani nasce a Bologna il 4 marzo del ’16 –, i testi sono scritti tra il ’36 e il ’39 e risentono, secondo Cesare Garboli, di uno «stile acceso, ispirato, divorato e come consumato da un ardore febbrile; stile dichiaratamente lirico».

Una città di pianura, libro d’esordio dell’autore ferrarese, torna disponibile per Officina Libraria con la curatela di Angela Siciliano nella collana «Officina d’Autore» diretta da Claudia Bonsi, Paola Italia e Maria Villano (pp. 192, € 18,00). La nuova edizione acclude anche altri quattro racconti di quello stesso periodo (Viaggio notturno, La calunnia, Teodoro, Ottavio e Olimpia) che erano stati esclusi dal florilegio, probabilmente perché Bassani li giudicava ancora immaturi. Tuttavia, come commenta Siciliano nella corposa introduzione, «con le movenze da prosa d’arte rondista Una città di pianura è documento dell’“epoca che le è contemporanea”, dell’influenza che la scuola bolognese di Bacchelli, Longanesi e Raimondi esercita su Bassani negli anni universitari».

Questo non significa che il collected non vada preso troppo sul serio. Tutt’altro. È invece la testimonianza più genuina del territorio letterario su cui si sta muovendo (non a tentoni bensì in piena consapevolezza) l’apprendista Giorgio, il quale su suggerimento di Giuseppe Dessí e Claudio Varese comincia a frequentare costantemente la Recherche – un vero e proprio livre de chevet: «non mi staccavo mai da quelle pagine, giorno e notte dentro Proust», rivelò in un’intervista –, ma anche Rilke, Flaubert e Delfini. E, in particolare, comincia a mettere a punto una tecnica espressiva che tornerà ad esempio in Cinque storie ferraresi (da notare il richiamo numerico-simbolico): la circonvoluzione dei mœurs de province, cioè di quei costumi provinciali che soffocano lo scrittore e i suoi orizzonti, eppure gli danno modo di tratteggiare con estremo rigore un’intera comunità. D’altra parte, la città di pianura è tale perché mantiene aperto il campo visivo, facendo sì che la prospettiva del soggetto possa comunque ruotare a trecentosessanta gradi.

Ecco l’incipit del racconto eponimo: «…sicché, ritornando al principio – ma non si creda che io sia venuto fino a questo punto fantasticando secondo il mio capriccio, il senso di queste avventure che è eredità di tempi forse anteriori agli stessi Etruschi resta in fondo alla coscienza di tutti, queste cose si sentono nell’aria – la donna, qua, sembra che abbia una certa superiorità, magari non riconosciuta e sconfessata, ma non per questo meno reale. Fatto sta che ciascuna pare che coltivi in sé come un senso di responsabilità che la rende superiore e migliore dell’uomo, per nulla diversa però da quella che dovrebbe essere secondo la legge di natura, è donna veramente sotto ogni punto di vista». Ricorda qualcosa? Sì. In tali riflessioni ritorte e sintatticamente un po’ schizofreniche ritroviamo per una frazione d’istante gli Etruschi e il tema della donna.

La visita alla necropoli etrusca di Cerveteri sarà il preludio del Giardino dei Finzi-Contini che ha per protagonista, angelo e demone al contempo, l’ineffabile Micol: anche in questa raccolta possiamo vedere l’Ewig-Weibliche goethiano, la sventura delle leggi razziali (quindi il rapporto con il microcosmo ebraico), le scazzottate intellettuali tra gli esclusi e la borghesia dominante, ma al di sopra di tutto resta la fine tessitura delle associazioni d’idee e della reminiscenza come trappola mnestica che pizzica corde interne: lo psicologismo di Bassani, qui ad anni luce di distanza dalla statuarietà coloristica di Delfini, è legato continianamente allo stile, dallo scatto della memoria si procede verso la cifra formale della «ripresa» (à la Kierkegaard?) e delle «larghe strofe». «Ed è proprio questo stile – sottolinea ancora Siciliano –, iterativo e dall’ampia sintassi, che (Bassani) ricerca nei racconti proustiani di Una città di pianura, Un concerto e Storia di Debora: uno stile “voluttuoso”».

Si potrebbe forse aggiungere l’influenza di Nerval: la brama del re-cordare è nel nesso inestricabile di presenza e unità: bisogna riportare al cuore ciò che è trascorso in uno spazio da cui l’io scrivente non debba più essere diviso. Dentro una secante voluttà esistenziale risiede dunque la prima preoccupazione estetica e ontologica di Bassani, impegnato a rilevare nella separatezza degli oggetti il senso d’inseparabilità del quale essi sono traccia. «Ma forse era così per tutti loro quei cinque amici, in quel tempo – scrive nel finale di Omaggio, una specie di compendio delle tematiche dell’intero libro –: cioè che tutti assieme, imperfetto ognuno, si completavano in una cellula che era forse perfetta e che, a una città attenta ai miracoli come la nostra, pareva appunto miracolosa».

ALBERTO FRACCACRETA

da il manifesto.it

foto tratta da Wikipedia

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