Il nuovo centrosinistra di D’Alema? No e nemmeno grazie

Il dilemma che prepotentemente si fa strada in questi giorni negli argomenti strettamente legati alla politica nazionale riguarda la tenuta del Partito Democratico davanti alla minaccia scissionista rappresentata dall’organizzazione...

Il dilemma che prepotentemente si fa strada in questi giorni negli argomenti strettamente legati alla politica nazionale riguarda la tenuta del Partito Democratico davanti alla minaccia scissionista rappresentata dall’organizzazione di Massimo D’Alema dei comitati “ConSenso”.
Una proposta questa di riedizione di uno schema di centrosinistra che recuperi appunto ciò che oggi sembra franare attorno al carrozzone rappresentato dal PD che contiene pezzi di storia vecchia e nuova: ex democristiani, ex comunisti, liberali, liberisti, repubblicani. Un po’ un coacervo di anime differenti che stanno insieme non per ispirazione unitaria ma per necessità, per mancanza di un diverso approccio politico (ed anche di un riferimento palesemente sociale).
In sostanza, dopo il 4 dicembre, dopo la grande batosta referendaria subìta da Renzi e dalla sua corte politico-governativa, la formazione dell’esecutivo-fotocopia non ha aiutato a lenire i dolori delle ferite e non sta portando avanti un processo di acquisizione di nuove simpatie per il Partito Democratico: siamo davanti ad un governo silente, privo di mordente, spaventato dalle misure che l’Unione Europea minaccia di applicare contro l’Italia in assenza della ormai celebre “manovra correttiva” dei conti.
Il tempo della flessibilità è passato, i numeri devono quadrare e quindi, a maggior ragione dopo la diminuzione del consenso elettorale, si arriverà molto presto ad un redde rationem nel Partito Democratico: del resto, Matteo Renzi non si decide a convocare il congresso perché, in tutta evidenza, teme di non poter gestire la stessa assise nazionale del suo partito, e questo la dice lunga sulle previsioni ottimistiche che l’ex presidente del consiglio ci propina ogni volta che parla di futuro dell’Italia e di futuro di quella presunta “sinistra” che lui pretende di rappresentare come semplice antitesi ai blocchi della vecchia destra berlusconiana e del populismo pentastellato che sono i contraltari politici di una terza destra: proprio quella renziana.
Una destra politica che ha i connotati del centro liberale in tema di diritti civili, alla Alexis de Toqueville, molto democratico-americaneggiante, e che si spinge – sempre sul modello a stelle e strisce – sul terreno della difesa del capitalismo liberista in chiave economica.
Cosa può dunque offrire ai comunisti e alle comuniste, al mondo del lavoro, a chi vuole costruire una vera sinistra di alternativa, questo passaggio probabilmente scissionista che potrebbe prendere corpo nel e dal Partito Democratico?
Sinceramente, in tutta onestà intellettuale, morale e politica, credo che possa solo mostrarci la crisi della socialdemocrazia nel proporsi come centro di controllo e gestione delle politiche liberiste nelle funzioni di governo: il PD non è un partito socialista, non è un partito nemmeno socialista-democratico (sia nel vecchio antico significato del binomio qui richiamato sia nella moderna traduzione e tradizione di un riformismo socialista tendente permanentemente ad una alleanza con il centro) e, pertanto, non è andato al governo del Paese con presupposti di riforma sociale.
Il PD ha governato con presupposti più che liberali, oltrepassando persino la vecchia cultura sociale democristiana che, ogni tanto, salvaguardava certi slanci in avanti di settori politici che assumevano un profilo apertamente ostile verso le classi più deboli, quelle salariate si sarebbe detto un tempo.
Per questo, il revanchismo dalemiano, il proposito di ricostruzione del centrosinistra, un vagheggiamento del vecchio Ulivo come fronte di assemblaggio degli scontenti del renzismo è un luogo politico già sperimentato che non ci salva dal pericolo delle destre, che tende a governare con compromessi così bassi da costringere gli elettori di sinistra a non comprendere più perché hanno dato il loro consenso a ciò che credevano “fosse” e poi si è rilevato – come sempre – “non essere”.
Un raggruppamento politico di neo-centrosinistra, caldeggiato da Pisapia, D’Alema, D’Attorre e da altri esponenti di Sinistra Italiana, non potrebbe che rimettere in campo la ricetta costrizionista del “voto utile” per depotenziare la sinistra vera, quella che tutti si ostinano a chiamare radicale e che io voglio chiamare col suo nome: comunista, anticapitalita quanto meno.
Erodere quelle centinaia di migliaia di consensi, la punta più bassa raggiunta nella nostra storia di comunisti dopo la Seconda guerra mondiale, la punta estrema di quei resistenti che potrebbero lasciarsi sedurre dal ricatto politico: “Non vorrete che a vincere sia Berlusconi insieme a Salvini e alla Meloni?!”. E ancora: “Non vorrete che a vincere sia Grillo?!”.
Possiamo aggiungere…”Non vorrete che vi si faccia vincere e che, dopo il voto, voi, il nuovo centrosinistra dalemiano, governiate con l’alleato più immediatamente vicino… cioè proprio Renzi e il suo PD?!”.
Perché alterntiva vi può essere, ma seguendo la logica del “meno peggio”, D’Alema e i suoi non potrebbero certo fare larghe intese con Grillo (che le rifiuterebbe a priori) o con la vecchia triade destroide forzitaliota-leghista-neofascista, e quindi dovrebbero rivolgersi proprio a colui dal quale oggi sembrano volersi separare.
Ma vi si rivolgerebbero, con tutta probabilità, da soci di minoranza di un governo di centro-centrosinistra: perché, comunque vada, è difficile immaginare che il PD possa avere un risultato inferiore a quello di “ConSenso” e magari di Sinistra Italiana (o una parte di essa) in alleanza.
Dunque, non esiste alternativa possibile per i comunisti se non allontanarsi da qualuque canto delle sirene, per costruire, nella piena consapevolezza della lunga durata e del lungo percorso del progetto che va sviluppato, una opposizione quotidiana a tutti questi finti esperimenti di altrettanto finta sinistra che aiuta sempre e soltanto la borghesia a rafforzarsi con un consenso popolare che non deve più avere.
Dobbiamo lavorare per separarci da tutte le forze politiche che non siano apertamente anticapitaliste e antiliberiste. La prima condizione riguarda il rilancio di una forza comunista non dogmatica e libertaria in questo Paese. La seconda condizione, quella antiliberista, è il collante necessario per una coalizione di sinistra degna di questo nome.
Solo così, marcando sempre, con ostinazione, a tutti i livelli la distanza e la profonda alternativa che rappresentiamo in tutto e per tutto a ogni altra proposta, può avere una speranza di ricrescita tanto il movimento comunista quanto la sinistra di alternativa in Italia.

MARCO SFERINI

1° febbraio 2017

foto tratta da Pixabay

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