Il segno lo ha passato molte volte, ma fino a tanto Bolsonaro non aveva ancora osato spingersi. Gettare fango sulla democrazia del proprio paese dinanzi a una cinquantina di ambasciatori stranieri, come è avvenuto lunedì, è infatti qualcosa di talmente grosso da far insorgere persino le forze conservatrici. «Bolsonaro disonora il Brasile», ha non a caso titolato O Estado de São Paulo, il quotidiano che rappresenta gli interessi del potere finanziario, parlando di «un atto assolutamente inedito e insolito, che offende le istituzioni nazionali, umilia il paese e riempie di vergogna l’intera popolazione».

Non si è trattato “solo” di un altro tra innumerevoli attacchi al sistema di voto elettronico: nella riunione con gli ambasciatori convocata al Palácio da Alvorada, la residenza ufficiale del presidente del Brasile, e trasmessa in diretta dalla televisione pubblica, Bolsonaro ha sparato menzogne a raffica sul sistema elettorale, definito «completamente vulnerabile», ha attaccato i giudici del Tribunale superiore elettorale (Tse) e della Corte suprema e ha chiesto a gran voce, per le elezioni del 2 ottobre, un conteggio parallelo dei voti da parte delle forze armate.

Con tanto di Power Point, uno strumento già reso tristemente celebre dal procuratore Deltan Dallagnol in funzione anti-Lula al tempo della farsa giudiziaria contro l’ex presidente, Bolsonaro ha diffuso teorie cospiratorie e denunciato presunti brogli, per esempio richiamandosi all’indagine della polizia federale su un attacco hacker alle urne elettroniche nel 2018. «Ad oggi l’indagine non è stata conclusa. Le elezioni del 2020 non avrebbero dovuto realizzarsi in assenza di una verifica», ha mentito il presidente. Perché l’indagine ha avuto eccome una conclusione: che l’accesso degli hacker non aveva comportato «alcun rischio all’integrità del processo elettorale».

Ma il presidente è stato anche capace di attaccare a testa bassa un altro potere dello stato, descrivendo senza fondamento il presidente del Tse Edson Fachin come avvocato di quel gruppo «terrorista» che sarebbe il Movimento dei senza Terra, oltre che come giudice che avrebbe «rimesso in libertà Lula», e accusando lui e i giudici Moraes e Barroso di essere «persone che portano instabilità» nel paese.

Le reazioni, stavolta, sono arrivate quasi da ogni parte: da membri dell’Alto comando dell’esercito, dalle tre associazioni della polizia federale e anche dalla grande stampa conservatrice, oltre che dalle forze politiche, dai giuristi, dalle più diverse organizzazioni della società civile e dai movimenti che hanno dato vita alla Campagna Fora Bolsonaro nel 2021 e che oggi sollecitano «una forte reazione contro il possibile golpe».

Ha reagito persino l’ambasciata degli Stati Uniti, che, in una nota, definisce il sistema elettorale brasiliano come un «modello» per il mondo, ricordando la «forte tradizione» del paese in materia di «elezioni libere e giuste, nel segno della trasparenza e di alti livelli di partecipazione».

A tacere è stato quasi solo il presidente della Camera, il bolsonarista di ferro Arthur Lira, lo stesso che ha protetto il presidente da ogni richiesta di impeachment.

Ma le reazioni, per quanto indignate, non sono bastate in passato e non bastano neppure oggi. Come ha denunciato l’antropologo e politologo Luiz Eduardo Soares, il fatto che Bolsonaro abbia «annunciato il golpe e non sia stato arrestato, né la popolazione sia scesa in massa per le strade, è la prova che non ci troviamo in uno stato di diritto»: «Se le istituzioni funzionassero», è chiaro, il presidente non sarebbe già più al suo posto.

CLAUDIA FANTI

da il manifesto.it

Foto di Pixabay