Alfonso Gianni: “La fusione tra Fiat e Peugeot, un pezzo del sogno di Marchionne”

Alfonso Gianni, già Sottosegretario al Ministero per lo sviluppo economico per Rifondazione Comunista nel governo Prodi II, studioso di economia, direttore della Fondazione “Cercare ancora“, condirettore della rivista trimestrale...

Alfonso Gianni

Alfonso Gianni, già Sottosegretario al Ministero per lo sviluppo economico per Rifondazione Comunista nel governo Prodi II, studioso di economia, direttore della Fondazione “Cercare ancora“, condirettore della rivista trimestrale “Alternative per il Socialismo” si occupa da sempre di problemi legati al rapporto tra le condizioni dei lavoratori e le trasformazioni dettate dal mercato.

Lo incontriamo per discutere della fusione tra FCA e PSA in un quadro globale (e anche europeo) che risulterà profondamente influenzato da questa manovra sinergica che vale 3,7 miliardi.

L’unione tra Fiat Crysler e il gruppo Peugeot porta il mercato mondiale dell’automobile (e dei trasporti su gomma in generale) a considerare come quarto gruppo produttivo questa simbiosi italo-americana-francese. John Elkann, presidente di FCA, Carlos Tavares, amministratore delegato di Peugeot, e Mike Manley, il successore di Marchionne alla guida di FCA, sostengono che il rapporto con i lavoratori non ne verrà intaccato. I sindacati al momento sono cauti. Cosa ne pensi?

Indubbiamente siamo di fronte ad un fatto di grandissima rilevanza e stupisce che le reazioni da parte del mondo politico italiano siano state così flebili, quasi la questione non ci riguardasse. Anche questo è il segnale di un declino industriale del nostro paese e delle sue classi dirigenti, politiche quanto economiche.

Eppure motivi di qualche preoccupazione ce ne sono e non pochi. A cominciare dal fatto, come ha messo in evidenza uno studioso del sistema industriale quale Giuseppe Berta, che la presidenza attribuita a Carlos Tavares indica che è più la Psa che compra la Fca che non viceversa. In ogni caso l’asse della fusione appare spostato rispetto agli assetti del nostro paese. Il che non lascia affatto tranquilli rispetto al futuro degli stabilimenti e degli investimenti in Italia. Certamente, se si guardasse la fusione solo dal punto di vista finanziario, emergerebbe un quadro più che soddisfacente per la famiglia Agnelli. Secondo calcoli fatti dalla stampa specializzata, se la holding dovesse distribuire l’intero pacchetto di cedole derivanti dalla fusione, la famiglia Agnelli otterrebbe un miliardo di euro e il ramo di Elkann 360 milioni. Un bel bottino mi pare.

Ma non ho alcuna intenzione di cadere nello stesso errore – in realtà un denso grumo di interessi – che imputo ad altri e quindi guardare alla fusione solo dal punto di vista finanziario. Tanto più che la questione non riguarda solo l’Italia e la Francia, ma l’intero assetto della produzione e del mercato dell’automotive su scala mondiale.

Si sta marciando – bisogna riconoscerlo – nella direzione prevista da Sergio Marchionne, ovvero la concentrazione della produzione in sei, sette gruppi, di cui quello che sta nascendo tra Fca e Psa occuperebbe la quarta posizione. L’operazione parte dall’Europa, ma con una presenza già cons0olidata negli Usa, grazie alla operazione Fiat-Chrysler, benedetta tanto da Obama, quanto da Trump. Se consideriamo gli Usa, il Canada e l’Europa vediamo che già queste enormi aree forniscono quasi il 90% del fatturato di Fca e Psa.

La lotta contro gli altri gruppi, in particolare Volkswagen – di cui non va sottovalutato l’accordo con la Ford per la mobilità elettrificata – sarà dunque per la conquista di quote rilevanti in altri mercati, in America Latina, ma soprattutto in Cina. Questa competizione se non produrrà nel breve nuove fusioni o alleanze, spingerà senz’altro le altre case automobilistiche verso nuovi accordi e la spinta alla conclusione di quelli già in itinere.

Siamo quindi nel corso di un complessivo ridisegno e riassetto proprietario e produttivo lungo le direttrici e le sfide dell’elettrificazione (Tavares insiste in particolare su questa), della digitalizzazione, della cosiddetta guida assistita. Un processo globale che farà sentire i suoi effetti destrutturanti e riduttivi sull’occupazione nel settore dell’automotive. Ma sottolineerà anche e impietosamente il ritardo di quei paesi, fra cui il nostro, che non hanno sviluppato Ricerca e Sviluppo nella tecnologia applicata alla mobilità delle persone e delle cose, particolarmente per quanto riguarda l’elettrificazione.

Alfonso Gianni al Congresso di SEL nel 2010

Per la prima volta in tutta la storia del movimento operaio, nel consiglio di amministrazione di una grandissima multinazionale composita siederanno due rappresentanti dei lavoratori: uno per FCA e uno per PSA. E’ un riconoscimento per il ruolo produttivo che potrà garantire maggiori diritti alla forza lavoro impiegata o è invece un tentativo di “ingabbiamento” dei lavoratori stessi? Francesca Re David, segretaria generale della FIOM-CGIL, e Michele De Palma, segretario nazionale sempre della FIOM-CGIL, danno una valutazione tendenzialmente positiva, ritenendo che l’accesso al CDA possa rappresentare un aumento di democraticità all’interno dell’azienda.

La decisione di immettere nel consiglio di amministrazione due rappresentanti dei lavoratori ha sorpreso molti commentatori. Certo non è mai stata la pratica italiana. Malgrado che forme di democrazia economica siano esplicitamente previste dalla nostra Costituzione e quindi, non fosse che per questo, non vanno pregiudizialmente respinte. Invece tali forme di partecipazione sono largamente usate in Germania. Anche se i consigli di sorveglianza previsti nelle imprese tedesche non sono esattamente la stessa cosa dei consigli di amministrazione.

Siamo quindi di fronte all’esportazione di un modello tedesco, più che europeo, come invece è stato affermato con eccessivo ottimismo. Come sempre di fronte a una novità bisogna aspettarsi che essa nasconda una sfida, una potenzialità che può volgersi sia in negativo che in positivo. Dipende da come viene interpretata e sostenuta. I dirigenti della Fiom hanno detto una cosa che mi pare fondamentale. I rappresentati dei lavoratori nel Cda devono essere eletti da tutti i lavoratori. Questo significa che non possono essere solo dei membri dei sindacati o rappresentanti degli stessi.

E’ un punto cruciale, per evitare, per quanto possibile fin dalla partenza, il pericolo di derive corporative o di compromissioni. Comprendo bene che questo è più semplice da realizzare all’interno di un’unica unità produttiva. Assai più complicato diventa quando ci troviamo di fronte a un gruppo che si estende su buona parte del globo. Tuttavia questo principio è essenziale, e bisognerà trovare i modi per metterlo in pratica, altrimenti l’esito dell’innovazione è già compromesso in senso negativo. Infatti contrattare e partecipare devono rimanere due concetti e due campi diversi e ben distinti. In particolare il secondo non può soffocare il primo, ma al contrario deve fornire ad esso maggiori strumenti di conoscenza e di informazione per svolgere al meglio l’opera di difesa degli interessi dei lavoratori.

E’ utile alla contrattazione se contribuisce non dico ad annullare, ma almeno a limitare significativamente l’asimmetria delle informazioni, quindi del potere, tra il management e i lavoratori. In sostanza la partecipazione non elimina il conflitto tra capitale e lavoro ma ne può migliorare l’efficacia e la qualità. Questo comporta anche una riflessione sul lato specifico della partecipazione. L’oggetto della medesima non può e non deve riguardare solo gli aspetti funzionali e produttivistici del funzionamento del gruppo ma anche e direi soprattutto il cosa produrre. Ed è su questo versante che il rapporto fra contrattazione e partecipazione diventa reciproco, perché solo la contrattazione e il conflitto che essa genera – se impediamo il suo inglobamento nella partecipazione ai consigli di amministrazione – possono smuovere le accanite resistenze della proprietà e del management sulle scelte produttive.

Da questo punto di vista diventa strategica la relazione fra il rappresentante dei lavoratori e il mondo esterno all’impresa, per evitare conflitti tra diritti, come quello tra salute/ambiente e lavoro. Basti pensare al caso dell’ex Ilva di Taranto.

Alfonso Gianni con Aldo Tortorella, storico dirigente del PCI

Un’ultima considerazione. Il governo Conte bis sul piano delle politiche economiche somiglia molto ai precedenti esecutivi. Il discostamento era peraltro difficile vista la presenza di forze che hanno fatto parte di governi liberisti: da quelli renziani fino al governo giallo-verde. La manovra finanziaria – critica che proviene anche da CGIL e CISL – non rimodula il costo delle pensioni, ad esempio, e non interviene in settori strategici del vecchio stato-sociale. Siamo sempre, dunque, in una fase di compressione dei diritti sociali tanto sul piano aziendale quanto su quello pre e post-lavorativo?

Purtroppo è proprio così. Lo abbiamo visto nella elaborazione della legge di bilancio, dove la principale preoccupazione è stata quella di cavarsela di fronte agli occhiuti censori europei, alle vestali delle politiche di austerity che ancora pervadono l’Unione europea, malgrado che la loro efficacia ai fini della ripresa economica sia oramai revocata indubbio persino da buona parte degli economisti mainstream.

La manovra di bilancio appare un insieme di mini provvedimenti che nella loro quasi illeggibile complessità disegnano un quadro di sostanziale continuità fra il Conte uno e il Conte due. Certo vengono meno le smargiassate alla Salvini, ma manca una qualsiasi politica di programmazione economica e industriale su cui potere fondare una speranza per l’occupazione e il miglioramento delle condizioni sociali. Sintomatico è il rifiuto ostinato e inflessibile di fronte a qualunque proposta di introdurre una tassazione patrimoniale. Lo si potrebbe fare, con una opportuna franchigia per non colpire ceti deboli. Lo si dovrebbe fare perché l’Italia è il paese nella Ue a più alto tasso di patrimonializzazione della ricchezza privata. Sarebbe indispensabile farlo perché abbiamo bisogno di investimenti pubblici nel campo produttivo come in quello del welfare state. Anche qui la tragica vicenda della ex Ilva ha molto da insegnare.

Quando due diritti costituzionali chiedono di essere difesi, come appunto la salute e il lavoro, affidarsi al capitale privato, non importa se nazionale o di altri paesi, è semplicemente criminale, perché questo tende soltanto a realizzare la massima e più veloce profittabilità dei propri investimenti e non gliene importa né di un diritto né dell’altro. Il tema delle pensioni, che peraltro può essere visto anche come riduzione del tempo di lavoro nell’arco della vita, sta scuotendo diversi paesi, vedi la Francia. Mentre da noi al massimo c’è qualche manifestazione in piazza santi Apostoli a Roma. Meglio che niente, ma del tutto inadeguate all’enormità del problema.

Landini aveva giustamente parlato di pensioni a 62 anni. Ma ovviamente non basta dirlo. Bisogna mettere in piedi un movimento continuativo su obiettivi di fondo come questo. Sono tra coloro che considerano positivo il movimento delle sardine, in quanto movimento democratico che smaschera l’inganno populista. Ma non si può certo chiedere a loro di sostituirsi al movimento sindacale.

Quello che dobbiamo auguraci che sui temi democratici come su quelli sociali si costruisca nel nostro paese una grande coalizione sociale, senza la quale peraltro è ben difficile anche solo pensare alla ricostruzione di una sinistra politica. Di cui ci sarebbe tanta necessità.

MARCO SFERINI

redazionale

22 dicembre 2019

foto tratte dalla pagina Facebook di Alfonso Gianni

foto di copertina: screenshot

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