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Politica e società

Un Benigni non fa primavera

Per vincere il referendum e scongiurare i cattivi presagi di sconfitta forse non basta avere a fianco il grande Roberto Benigni rapidamente convertito al Sì renziano.

Le sonore smentite venute dai guardiani dell’austerità (dal Fmi, all’Ocse, al nostro ufficio parlamentare di bilancio) e il dietrofront del Financial Times indicano un cambio di umore e forse anche di cavallo della finanza internazionale rispetto al governo italiano. Del resto anche sulle colonne dei giornaloni i cori di osanna all’uomo nuovo della politica italiana stanno ripiegando su toni più bassi e assai più accorti via via che l’esito referendario del 4 dicembre si fa più incerto.

Ieri, in senato, il gruppo di Verdini ha salvato la maggioranza perché grazie ai suoi voti è stato approvato il rendiconto del bilancio 2015 e l’assestamento di quello del 2016. Un altro pronto soccorso a salvaguardia dell’amico premier (a buon rendere). Ma nonostante il soccorrevole Verdini, la barca non va.

I dieci miliardi finiti nella pioggia elettorale degli 80 euro, circa il doppio messi sugli sgravi fiscali alle imprese per il jobs act, i 2 previsti per i pensionati nella prossima legge di bilancio non producono i risultati sperati. Il paese arranca e il ministro Padoan ha dovuto sparare quell’1% di crescita che gli ha fatto guadagnare la poco commendevole qualifica di scarsa affidabilità spingendolo in difesa «i mie dati non sono una scommessa».

Anche per questi spifferi fastidiosi che cominciano a soffiare su Palazzo Chigi e dintorni è obbligatorio per il presidente del consiglio vincere il referendum e tornare saldamente in sella a quel partito unico e trasversale che con la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale dovrebbe blindare questa e la prossima legislatura.

Per riuscire nell’impresa Renzi non bada a spese. E’ vero che avere molti soldi non sempre fa vincere le elezioni. Per dire, la sindaca Appendino ha usato meno di 100mila euro per la campagna elettorale, contro i milioni di Fassino, eppure ha conquistato la città di Torino.
Rovesciare tre milioni di euro, di cui circa 400mila nelle tasche del guru americano del porta a porta, non è detto che equivalga a firmare l’assicurazione sulla vittoria referendaria ma è sicuro che questo fiume di denaro darà potenza alla propaganda governativa consentendole di raggiungere la grande platea degli indecisi.

E certo non è indifferente avere a fianco un testimonial del Sì come Roberto Benigni anche se la sua audience non è più quella di una volta quando prendeva in giro Berlusconi e decantava la “Costituzione più bella del mondo”. Adesso l’irriverente folletto fa una acrobatica capriola e si associa alla campagna per il Sì alla rottamazione di un bel pezzo della Carta, con qualche difficoltà a risultare credibile proprio per averci convinto ad amarla e a difenderla. Oltretutto l’impressione è che nella guerra dei comici, il favore del pubblico del piccolo schermo sia più dalla parte del popolare Maurizio Crozza che dalla sua. Anche perché mentre Benigni prende a prestito un brutto slogan di altri («Se vince il No è peggio della Brexit»), cercando in qualche modo di giustificarsi («Nella riforma c’è qualcosa da rivedere…»), Crozza ne ha appena sfornato uno assi più brillante e divertente: «Sulla riforma di Renzi il paese è diviso a metà tra chi voterà Sì e chi l’ha capita».

NORMA RANGERI

da il manifesto.info

foto tratta da Pixabay

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