A vederli accartocciarsi su se stessi sembrava che interi palazzi fossero stati riempiti di dinamite. Implosi, sbriciolati. Cumuli di macerie informi, impossibile capire cosa fossero prima dell’alba di lunedì. Sono trascorsi ventiquattro anni dal terremoto che nel 1999 colpì la Turchia, uccidendo 17.500 persone.

E quasi un secolo da quello del 1939, 30mila morti. Il sisma che ieri ha devastato il confine tra la Turchia del sud-ovest e la Siria del nord-ovest è stato altrettanto potente, di nuovo nel cuore dell’incontro-scontro tra la placca anatolica, l’africana e l’arabica. Ed è durato un intero minuto. Alla prima scossa da 7.8 di magnitudo – con epicentro la zona tra le città di Kilis, Gaziantep e Kahramanmaras – ne sono seguite 120, con punte di 7,6.

Non si riesce nemmeno a stare dietro alla conta delle vittime: 1.762 in Turchia e 1.293 in Siria in serata, un totale di 3.055 che è destinato a lievitare. L’Oms li moltiplica già per otto. Terre di confine di per sé martoriate da una guerra senza fine apparente, di cui Ankara è una delle principali responsabili: è qui che da anni sopravvivono decine di migliaia di profughi siriani, mai tornati a casa dallo scoppio della guerra civile nel 2011.

Città sventrate e mai pacificate come Aleppo, province divenute emirati islamici in miniatura come Idlib e cantoni un tempo curdi come Afrin che da cinque anni assistono a un’opera di ingegneria demografica che ha sostituito la popolazione di un tempo con miliziani qaedisti fedeli alla Turchia.

Il sisma è arrivato mentre sopra quel confine nevicava, un gelo insopportabile per chi ha una tenda come casa e per chi da ieri una casa non ce l’ha più. Da una parte e l’altra della frontiera. La corsa alla solidarietà è partita subito, dalla Russia agli Stati uniti, dalla Cina al Qatar fino ai paesi europei. Il presidente turco Erdogan ieri dava conto di «45 paesi che hanno offerto aiuti» e novemila soccorritori turchi già al lavoro.

Mentre all’Onu l’Assemblea generale tributava alle vittime un minuto di silenzio, la Farnesina faceva partire subito il primo volo carico di aiuti, in arrivo stamattina. Di fronte c’è un livello di devastazione immane e macerie che nascondono chissà quanti corpi: 3.471 gli edifici crollati solo in Turchia, tra cui due ospedali a Hatay e Iskenderun e il castello millenario di Gaziantep, ha detto ieri pomeriggio il vice presidente turco Fuat Oktay. Più tardi è stato corretto: 5.606 i palazzi distrutti.

Un motivo c’è, lo spiegava ieri ad Al Jazeera Mustafa Erdik, docente all’Università di Bogazici: «Una delle ragioni del numero tanto alto di vittime è la scarsa qualità degli edifici». Gli avvertimenti sono rimasti puntualmente inascoltati: dieci anni fa il Piano di azione per i terremoti dello Stato turco aveva già sottolineato come l’urbanizzazione di massa degli anni Cinquanta era stata resa possibile da uno sviluppo urbano fragilissimo, zero supervisione e palazzi multipiano tirati su male e in fretta. Qualche anno prima, dopo il sisma del 1999, il governo di Ankara aveva avviato un’analisi della situazione, è stato fatto pochissimo.

Ieri quegli enormi palazzi dai piedi di argilla si sono abbattuti al suolo con una massa di cemento che appesantisce i soccorsi: troppe le macerie da rimuovere. Ankara ha dichiarato lo stato massimo d’emergenza, indetto sette giorni di lutto nazionale e chiuso le scuole fino al 13 febbraio.

«Ero sveglio anche se erano le quattro di mattina – racconta al manifesto il giornalista Ferhat Parlak, da Silvan in provincia di Diyarbakir – Il comune ci chiede di rifugiarci in centri polivalenti, palestre, sale per matrimoni ma abbiamo paura che crollino anche quelli. Alcune persone sono nelle moschee, chi ha un’auto dorme lì. Piove e fa freddo. Siamo preoccupati».

Nel 2018 per il suo lavoro di denuncia di violazioni dei diritti umani, Parlak è stato incarcerato per un anno. Continua a lavorare, scrive di corruzione: «Manca il controllo nel settore urbanistico ed edile. A Diyarbakir e in altre città, negli ultimi dieci anni, è partita un’ondata di costruzioni sfrenate senza rispettare i regolamenti comunali. E i vecchi edifici rimasti vuoti sono lasciati a marcire». Uno strumento noto, quello della pianificazione urbana nel sud-est turco a maggioranza curda che è servito nell’ultimo decennio per sfigurare la storia e il volto delle città, allontanare i più poveri e operare un’oculata gentrificazione politica.

Dall’altra parte del confine, nella Siria del nord-ovest la situazione non è migliore: qui a mancare quasi del tutto è una macchina dei soccorsi efficiente e pure un coordinamento tra le varie autorità che controllano il territorio, il governo di Damasco, le enclavi islamiste filo-turche e l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (il confederalismo democratico partito dalle comunità curde).

«Non ci sono abbastanza escavatori e quelli che ci sono sono vecchi», il commento di Mey al Sayegh, portavoce della Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa. Le zone colpite sono poverissime, distese di comunità di sfollati interni, che moltiplicano i bisogni immediati: mangiare, bere, coprirsi. Danni e morti si registrano ovunque, da Shehba, luogo di rifugio di centinaia di migliaia di sfollati da Afrin, a Kobane, la città simbolo della vittoria curda sull’Isis.

A Sarmada, lungo il confine con la Turchia, nel pomeriggio i morti erano quasi quattrocento. Era un piccolo villaggio prima della guerra, qualche migliaio di abitanti. Un decennio dopo è uno dei “centri commerciali” delle opposizioni islamiste siriane, a due passi dal territorio turco. Qua sono arrivati anche tanti profughi e la trafila è stata la stessa: palazzi tirati su in poco tempo, crollati come un castello di carte.

CHIARA CRUCIATI
con la collaborazione di Murat Cinar

da il manifesto.it

foto: screenshot tv