Quale popolo?
Potere al popolo. L’opzione di una lista popolare, di sinistra antiliberista e anticapitalista creata dal basso cresce in tutta Italia: le assemblee si moltiplicano nei territori e registrano anche una notevole affluenza di cittadini interessati ad esprimersi compiutamente in un attivismo ritrovato. Tutto ciò, indubbiamente, è un bene se si mira ad offrire al cosiddetto “popolo” una possibilità di esprimersi anche elettoralisticamente senza dover ricorrere all’astensione o alla scheda bianca o a quella nulla, vista la presenza di quattro altre opzioni in campo che, almeno per chi ha contrastato senza se e senza ma le politiche liberiste di questi decenni, sono francamente inaccettabili.
Occorre però precisare alcuni elementi di puntualizzazione sul percorso che si intende intraprendere. La prima di queste sottolineature riguarda il rapporto tra i soggetti politici organizzati nella forma “partito” e tutti coloro che invece non lo sono: non può esservi nessuna forma di privilegio in senso positivo o di discriminazione in senso negativo, quant’anche il privilegio stesso sia – almeno per quanto mi riguarda – una espressione negativa tanto quanto quella della discriminazione.
Intendo dire che abbiamo da troppo tempo assistito ad una distorsione di un principio costituzionale, ma prima di tutto moralmente politico (o politicamente morale…), che individua nei partiti i luoghi di formazione della rappresentanza politica. Rappresentanza significa delega. Delega significa voto, elezione, consegna di un mandato esplicito per esercitare funzioni che, da solo, il cosiddetto “popolo” non può esprimere collegialmente.
I partiti, al di là di questa distorsione, rimangono la forma di associazione migliore per costruire un consenso politico che è consapevolezza civica, quindi assunzione di responsabilità derivanti da una osservazione mirata del contesto in cui si vive.
Questa distorsione è stata creata da un’altra medesima stortura operata nel sistema e sul sistema istituzionale – rappresentativo: i partiti sono un mezzo e, come tutti i mezzi, possono essere utilizzati bene o male. Il cattivo utilizzo è da ricercare nella conversione di interessi comuni in interessi privati, nel leaderismo esasperato, nelle conventicole che hanno trasformato l’organizzazione spontanea, fondata sulle idee e sulle ideologie, in organizzazione propagandistica per meri fini autoreferenziali, quindi volti alla perpetuazione di un determinato sistema di potere.
Uscire da questa rappresentazione della forma – partito è necessario se lo si fa concretamente nella vita di tutti i giorni, se si è disposti a non partecipare alle compromissioni che hanno snaturato la nobile arte della politica e l’hanno ridotta a semplice specchio riflettente degli interessi del capitalismo italico ed europeo.
Per questo la locuzione “potere al popolo” ha un senso se si è consapevoli del rapporto tra potere e popolo e se si ha chiara la condizione di analfabetismo politico e civico di ritorno che oggi pervade larga parte del popolo italiano.
Quando parliamo di “potere al popolo”, esattamente cosa vogliamo intendere? Dare il potere al popolo dei centri commerciali? Al popolo che inneggia alla morte dei migranti e se ne augura il respingimento con le cannonate? Al popolo che spesso e volentieri plaude ad ogni fiato che si spende per richiamare la necessità della pena di morte?
Il popolo, soprattutto, esiste?
Ecco, questo a mio avviso, è il punto centrale della questione se si vuole davvero dare vita ad un progetto politico e sociale (insisto da sempre su questo binomio per me inscindibile): stabilire che, prima ancora della lista, va ricostruito il popolo, va ritrovato un sentimento che è connessione non solamente emotiva, ma di classe, di riconoscimento reciproco di interessi comuni che devono poter essere difesi – questo sì – da una rappresentanza anche politica in Parlamento che si esprima attraverso quelle connotazioni programmatiche che sono venute fuori dagli interventi del primo incontro al Teatro Italia.
Rispetto per tutti, da tutti
Per questo la costruzione della lista deve avvenire nella pienezza del riconoscimento reciproco di diverse realtà collettive o anche di singoli che si uniscono nel rispetto dell’equipollenza, esprimendosi nel famoso principio egualitario “una testa, un voto”.
Si tratta di una collegialità espressiva di una volontà che deve poi trovare sintesi e quindi l’assemblearismo ha un senso soltanto se riesce a concretizzare e definire precisi punti su cui avanzare tanto contenutisticamente quanto organizzativamente.
Senza questi fondamentali ben definiti, qualunque impresa volta a riconoscere agli altri e negli altri un rinnovato spirito critico, una coscienza di classe e, quindi, una rinascita della consapevolezza di “essere popolo”, è destinata a ripetere errori già commessi in passato.
L’unica differenza tra l’ieri e l’oggi sta in un fatto che è insieme forza e debolezza: non ci troviamo a condividere lo stesso spazio politico con chi puntava al governismo a tutti i costi. Ciò rappresenta un potenziale di coesione maggiore rispetto al recente passato ma evidenzia anche la debolezza con cui dovremo fare i conti: la mancanza di un minimamente ampio fronte di forze politiche pronte a sostenere, limitando anche la loro “sovranità”, un esperimento che senza l’organizzazione dei partiti, la loro esperienza e il generoso, perché spontaneo, apporto di migliaia di compagne e di compagni non potrebbe nascere nella sua duplice forma di rappresentanza sociale e politica.
Riconoscibilità
Non ho grandi pregiudiziali sul nome della lista. Spero che nome e simbolo riflettano un programma che ci distingua, agli occhi e alle orecchie dei cittadini, come qualcosa di profondamente alternativo, antiliberista e anticapitalista.
Dobbiamo essere riconoscibili e comprensibili alla massima potenza, perché ci saranno molti nella cosiddetta “sinistra” (che molti telegiornali e quotidiani definiscono “radicale”!) di D’Alema e Grasso che punteranno sul voto inutile da un lato e sul voto utile dall’altro.
Ecco, da questa trappola dobbiamo uscire sin da ora, nemmeno entrarci per un secondo.
Parliamo di noi comuniste e comunisti, del perché siamo un “quinto polo”, una quinta offerta politica ma soprattutto sociale per una popolazione smarrita, confusa, arrabbiata con i propri simili piuttosto che con i padroni.
Con un linguaggio moderno e antico al tempo stesso dobbiamo interpretare la rabbia, la delusione e l’amarezza e parlare con nettezza: le analisi complicate non servono se non quando si vuole approfondire un tema.
La nostra comunicazione diretta, povera ma dignitosa, autonoma e autogestita, senza i grandi o medi poteri dietro, senza fondazioni, senza banche, senza curie o grandi apparati di gestione del consenso, deve avere come riferimento proprio la semplicità da cui deriva la disaffezione popolare verso la politica, verso le istituzioni, verso – verrebbe da dire – la società stessa.
Il nostro compito, difficilissimo ma necessario, è di essere ciò che gli altri non possono essere: senza padroni ma con grandi ambizioni per tutte e tutti coloro che sopravvivono invece di vivere.
Quale sinistra?
In questi giorni di riflessione sugli scenari che si aprono a sinistra, ho trovato interessante la lettura ripetuta dell’intervista rilasciata dal professor Luciano Canfora a “Il Fatto quotidiano”. Penso che il professor Canfora abbia interpretato come alternativa programmatica e politica una formazione che nasce da una maggioranza di posizioni che invece hanno contribuito ad innescare, ormai oltre trenta anni fa, la lenta e inesorabile dissoluzione della sinistra comunista prima e di quella socialdemocratica dopo.
Questa individuazione di un “rinnovamento” della sinistra nella formazione capitanata da Pietro Grasso è da ricercarsi nel disarmante spettacolo di una politica italiana che nominalmente è rimasta “di sinistra” perché si è autoattribuita quella definizione, ma che con l’esercizio del potere esecutivo ha dimostrato di essere oltre la conservazione dei privilegi della classe dominante: il legame tra Roma e Bruxelles si è saldato solamente in tema di accordi economici, di lettere che impartivano ordini sulla correzione delle stime debitorie, per un riallineamento del sistema delle correzioni sociali alle esigenze di protezione dei grandi profitti finanziari a tutto scapito delle classi più indigenti del Paese.
Davanti alla deriva liberista del PD, al suo essere – come bene analizza Canfora – forza politica formalmente “di centro”, anche chi fino a poco tempo fa stava in quel contesto, seppur criticamente, seppur rivendicando un ruolo che era stato “rottamato”, appare il più fulgido dei riformatori sociali.
Alle soglie del liberismo spinto, delle politiche di aggressione alle briciole di tutele sociali che ancora esistono, coloro che sono usciti in tempi differenti dal PD divenuto monolite renziano, non si sono curati di fare una autocritica rispetto alle scelte scellerate di questi ultimi decenni: dalla rincorsa alle privatizzazioni – quando noi di Rifondazione gridavano alle 35 ore a parità di salario, ai contratti nazionali pubblici, alla contrattazione piuttosto che alla concertazione – fino all’accettazione di una democrazia leggera, fatta di personalismi più che di persone, di condivisioni del potere con un centro che ha mutato la sensibilità della sinistra stessa e l’ha perversamente trasformata in una appendice del potere borghese, delle necessità quindi del ceto ultramedio.
Oggi si scoprono tutti vergini, alfieri della sinistra, tutti alternativi al PD e alle destre.
Se è bene guardare al futuro e al presente che lo abbandona in ogni istante, è anche utile rinfrescare la memoria politica, sociale e civile di questo Paese e di una parte politica che vuole ricollocarsi in Parlamento approfittando di uno spazio aperto a sinistra.
Quello spazio non può essere occupato da chi ha ucciso la sinistra in tutti questi anni. Per questo la necessità di una ulteriore alternativa a tutto ciò: alle destre classiche e moderne naturalmente, al PD e alla sinistra socialdemocratica e governista che ha partecipato alle maggioranze che hanno distrutto la vita dei più deboli fino a pochi mesi fa e che ora si imbelletta di verginismo per apparire rispettabile e degna di essere votata.
Rifondare la coscienza, tornare ad “essere”
La ricostruzione di un popolo è un esercizio non solo di tipo culturale, ma lo è anche. Nel corso di oltre trenta anni di destrutturazione della coscienza sociale e di classe, con la fine dell’egemonia culturale di sinistra nel Paese, quella che aveva meglio reso concreta la potenziale astrattezza di princìpi costituzionali che rischiavano di rimanere solo sulla carta, la sinistra sia di alternativa sia socialdemocratica ha cessato di avere un ruolo riconoscibile perché irriconoscibili sono diventati i valori e le istanze sociali.
Il ruolo del sindacato è venuto progressivamente subordinato alle istanze del mercato e non è riuscito a capovolgere, seppure con grandi manifestazioni di massa, i sentimenti e le tensioni presenti nel Paese: l’eguaglianza ha lasciato il posto all’egoismo, ad un individualismo che è la naturale espressione sociologica del singolo che ha assunto su di sé tutta l’etica proprietaria del “self made man”.
Al collettivo si è sempre più sostituito il sistema del precariato a tutti i livelli: sociali e, quindi, contrattuali. Tanto è vero che dai contratti collettivi nazionali di lavoro si è passati ad una parcellizzazione del medesimo, ad uno spacchettamento dei diritti più elementari conquistati prima della venuta del craxismo e della sua successiva “evoluzione” berlusconiana.
Il fatto che la sinistra socialdemocratica abbia a pieno regime operato in queste direzioni, cercando di soddisfare il volere del padronato e del mercato e subordinando i diritti dei lavoratori a tutto ciò, trascinando in questa operazione anche la sinistra comunista ricattata direttamente o meno con l’anatema dell’ “arrivo delle destre”, la dice lunga sul rinnovamento attuale che vorrebbe attribuirsi definendosi col binomio “Liberi e uguali”.
Questa sinistra è la riedizione disperata di chi si percepisce esistente solo se lo è nelle aule parlamentari e, sovente, lì, proprio lì fa e disfa, scende a compromissioni in nome della governabilità, quindi della non perturbazione sociale che potrebbe nascere se invece in Parlamento entrasse una sinistra che mette il suo baricentro fuori da quelle aule e che vi porta all’interno la rivendicazione di bisogni che un tempo erano diritti.
Tornare, dunque, ad essere di sinistra, ad essere comuniste e comunisti in questi processi di costruzione dal nulla (perché è questa la condizione politica in cui ci troviamo se la caliamo nel contesto sociale presente) significa prima di tutto rifondare non solo il nostro Partito ma la coscienza popolare: rifondare il popolo stesso che oggi non ha consapevolezza di essere, in larga parte, una classe “in sé” e non “per sé”.
L’impresa è ardua e, proprio per questo, non è da socialdemocratici.
MARCO SFERINI
6 dicembre 2017
foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al popolo