Monica Vitti, la seduzione dell’ironia in un cielo stellato di lentiggini

Ma 'ndo vai. Addio all’attrice protagonista del cinema italiano. Aveva 90 anni, da tempo non appariva in pubblico
Monica Vitti

Nella zona del palazzo del cinema di Cannes molti attori e registi hanno lasciato l’impronta delle mani con autografo nel cemento di una piastrella. Tra le tante quella di Monica Vitti. Curioso perché Monica ha vinto premi al festival di Berlino, di San Sebastian, ha avuto un Leone d’oro alla carriera a Venezia. Nulla invece a Cannes.

Del resto i francesi, pur adorandola (l’hanno anche insignita dell’onorificenza di Commendatore delle arti e delle lettere), le avevano già fatto uno scherzetto quando «Le Monde» nel 1988 strillò in prima pagina la morte di Vitti per suicidio da barbiturici. Lei non si scompose e reagì con ironia ringraziando perché dare qualcuno per morto si dice che allunghi la vita. Una reazione degna di un’attrice dotata di grande talento, ma soprattutto di straordinaria intelligenza e acume, strappata a tutti dalla malattia che l’ha colpita molto tempo fa.

Maria Luisa Ceciarelli, era nata a Roma il 3 novembre del 1931, da bimba aveva vissuto qualche anno a Messina al seguito della famiglia dove bonariamente era presa in giro per la sua esasperata freddolosità. Ma, ancora una volta lei aveva saputo girare questa «critica» in positivo pubblicando un primo libro autobiografico Sette sottane (Sperlking&Kupfer), libera traduzione di «sitti vistini» il nomignolo che le veniva dato per le sue vestizioni a cipolla con strati di abiti sovrapposti.

Quando era arrivata all’Accademia d’arte drammatica, primi anni ’50, Sergio Tofano l’aveva invitata a scegliersi un nome d’arte un po’ più raffinato, e lei aveva scelto parzialmente il cognome della mamma, Vittigli, venuta a mancare presto e contraria alla sua scelta «artistica», completato da Monica desunto da una lettura dell’epoca.

Esordi da teatro classico, da Shakespeare a Molière, e allestimenti brillanti. Si era affacciata anche, spesso non accreditata, in qualche film, fino a quando era stata notata da Michelangelo Antonioni durante una sessione di doppiaggio di Il grido. Di una bellezza singolare e dirompente, caratterizzata da un’inconfondibile voce spezzata e supportata da una grande consapevolezza, Monica aveva stregato Michelangelo, e viceversa. Tra i due è stata relazione affettiva e artistica di grande spessore.

Nell’arco di poco più di un paio d’anni Vitti è stata protagonista di L’avventura, La notte e L’eclisse, la trilogia dell’incomunicabilità che aveva trasformato Antonioni in un maestro mondiale e Monica in un’icona intellettuale. Torneranno a lavorare insieme per Deserto rosso e Il mistero di Oberwald, ma nel frattempo lei aveva cominciato a percorrere altre strade.

Da allora nel corso degli anni è stata chiamata da molti registi stranieri, da Vadim a Losey, da Buñuel a Cayatte, da Jancso a Ritchie (la paura dell’aereo le preclude Hollywood). Ma la svolta più decisa è stata quella che l’ha portata all’alternanza tra irresistibili commedie a altri film. Monicelli, Tinto Brass prima della svolta erotica, Salce, Scola, Risi, Giraldi, Magni, Sordi, il secondo grande amore, Carlo Di Palma la dirige in un paio d’occasioni, come il suo compagno da una vita Roberto Russo, che le è stato accanto in tutti questi anni di silenzio pubblico, presumibilmente penosi e difficili.

Ha percorso tutte le strade praticabili per un’attrice: teatro, cinema, radio, televisione (tra le altre cose accanto a Eduardo che stravedeva per lei), doppiaggio, segno di una inarrestabile curiosità a voglia di parlare e divertire il pubblico, senza mai scadere nella volgarità.

Nessuno saprà mai come sarebbe stata Ceciarelli, di certo Vitti si è sempre contraddistinta per essere una donna dello schermo, capace di imporre la sua personalità e la sua verve sia andando a cercare sino in Scozia l’uomo che l’aveva disonorata, sia accanto a Sordi nel rievocare i fasti da fame perenne dell’avanspettacolo dei tempi grami. «Le donne mi hanno sempre sorpresa: sono forti, hanno ancora la speranza nel cuore e nell’avvenire», diceva.

Nel panorama delle attrici italiane il fascino di Monica era lontano anni luce da quello delle maggiorate o delle donne che ostentavano armi di seduzione di massa, lei giocava spesso in sottrazione, da questo punto di vista, arrivando a considerarsi bruttina, seppure attribuendosi un ruolo di battistrada per altre attrici venute dopo.

Eppure piaceva, tanto, forse proprio per quel suo modo di porsi per quella profondità dello sguardo, per quelle lentiggini che talvolta affioravano («una ragazza senza lentiggini è come un cielo senza stelle») e per quella capacità unica di fare ridere (forse solo Franca Valeri, aveva saputo fare altrettanto). E quel che conta ancora di più è che non piace solo agli uomini, piaceva anche alle donne che finalmente vedevano in lei qualcosa di tangibile, qualcosa in cui potevano identificarsi senza timori reverenziali o inadeguatezze.

Oggi Monica se n’è andata definitivamente e ci mancherà. Ci mancheranno le sue canzoni, come quella «Io non capisco la gente/ che non ci piacciono i crauti», che ha proposto anche in tv in coppia con Fiorella Mannoia (da giovanissima controfigura di Monica). Del resto ci mancava già da diverso tempo quando la malattia l’ha sottratta all’affetto del pubblico. Con lei se ne va definitivamente un pezzo importante della storia del cinema italiano capace di raccontare storie importanti, talvolta di suscitare risate e di fare sorridere, ma sempre capace di emozionare profondamente. E lì Monica ha lasciato il suo segno, profondo, indelebile, inconfondibile.

ANTONELLO CATACCHIO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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Cinema

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