Capita, frequentando l’affascinante mondo dei ricercatori, parlando a tu per tu con donne e uomini di scienza, di venire a conoscenza di storie curiose, studi di frontiera e vite straordinarie. Straordinarie perché letteralmente fuori dall’ordinario. A Roma, per esempio, a due passi dal Policlinico Umberto I di Roma, negli edifici del Dipartimento di scienze odontostomatologiche e maxillo facciali della Sapienza, c’è un laboratorio… di archeologia.

Un’archeologa che ha lavorato all’Università di Cambridge, nel Regno Unito, alla Columbia di New York, e che ha vinto un grant europeo di un milione e mezzo di euro per finanziare le sue ricerche sulle strategie alimentari nelle società mesolitiche e del primo neolitico nell’Europa meridionale, oggi dirige un laboratorio di ricerca ad alta tecnologia fra i dentisti. In effetti di bocche e di denti si occupa, ma di quelli appartenuti a Sapiens vissuti circa diecimila anni fa. Calcificata su smalto d’antan, ben nascosta nel tartaro preistorico, c’è la storia della nostra alimentazione.

Aver vinto un prestigioso grant europeo ha consentito a questa ricercatrice di ottenere una posizione stabile, di costruire il suo primo gruppo di lavoro e di progredire nella carriera, bypassando le “code” interne. Poter gestire un capitale come quello messo a disposizione dall’Unione Europea è qualcosa che fa gola alle università, non deve dunque stupire che l’Alma mater abbia fatto ricorso a una soluzione creativa, accomodando un’archeologa fra gli igienisti dentali, pur di portare a casa il bottino.

Come si diceva: vite straordinarie quelle dei ricercatori. E ancora più straordinarie, spesso, quelle delle ricercatrici. Di carriere scientifiche, di donne e di paradossi, come quello appena raccontato, si occupa Camilla Gaiaschi: sociologa, ricercatrice Marie Sklodowska-Curie all’Università di Losanna e docente di Pari opportunità e carriere scientifiche all’Università degli Studi di Milano. Studia le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro, con particolare attenzione al mondo accademico, scientifico e della ricerca.

Da poco è in libreria con un saggio edito da Carocci e intitolato Doppio Standard e che mette insieme i risultati di almeno otto anni di lavoro, analizzando i dati italiani a confronto con i paesi europei e soffermandosi su quattro casi studio nei settori dell’accademia, delle scienze biologiche e delle carriere medico-chirurgiche.

Cominciamo dal titolo: doppio standard, che cosa vuol dire?

Si usa quando si applicano criteri di valutazione diversi nei confronti di persone che si trovano nella stessa situazione o hanno le stesse caratteristiche. In ottica di genere, e guardando al mondo del lavoro, è il metro di giudizio – generalmente più severo – utilizzato nei confronti delle donne quando si tratta di valutarle. È un meccanismo che produce svantaggi nel reclutamento, nella promozione e nella retribuzione. Insomma, trucca la corsa. O perlomeno la rende più faticosa.

In che senso?

Prendiamo i grant europei, cui si accennava sopra. Per poter vincere un finanziamento di questo tipo è necessario rispondere a standard di eccellenza elevatissimi. E dai dati che abbiamo a disposizione, in effetti, questa sembra essere un’isola felice di uguaglianza: sono tante le ricercatrici universitarie che oggi si ritrovano a poter beneficiare di questa opportunità. C’è però un prezzo da pagare. Le donne hanno infranto il soffitto di cristallo perché sono già state discriminate, nelle fasi precedenti e, una volta arrivate a fine corsa, sono più competenti degli uomini con cui si trovano in lizza.

Lei dice: gli spazi di uguaglianza esistono, ma solo per l’eccellenza.

La normalità – o, se vuole, la mediocrità – è un lusso che le donne non possono permettersi. Non è solo questione di dover essere più competenti e capaci, ma anche di dover adottare strategie che possano ridurre eventuali stop alla carriera legati, per esempio, alla maternità. Si fanno meno figli o magari se ne fa uno solo. Mi chiedo: è questa l’uguaglianza che si desidera? Parliamo di un’uguaglianza per pochi, per chi adotta un modello «maschile» di produttività e che in quanto tale non comporta carichi di cura. Un’uguaglianza per chi vuole e può permettersela.

Maternità, figli, siamo ancora fermi a questo punto?

Qualche numero: nelle carriere medico chirurgiche si sta assistendo a un vero e proprio baby boom tra le specializzande. È una strategia che consente loro di evitare una futura “penalità di maternità” nel mondo del lavoro, ma che lascia intatti gli equilibri dentro le mura domestiche. Secondo i dati che ho raccolto in cinque ospedali lombardi su più di 1000 rispondenti emerge che alla casa e ai figli le donne dedicano 25 ore la settimana contro le 16 dei colleghi uomini.

Politiche di conciliazione vita-lavoro. Ridistribuzione dei carichi di cura all’interno della coppia. Chi può (e dovrebbe) intervenire concretamente, ma non lo fa?

Chi sul luogo di lavoro occupa posizioni di potere. Ma se ci sono più donne che entrano, lo spazio per gli uomini si restringe. Il gruppo dominante tende a mantenere il proprio privilegio: vale per le donne come per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale, per la classe di provenienza.

Lei ha condotto anche numerose interviste in chirurgia. Una professione che spesso è appannaggio del mondo maschile.

Alcune intervistate ricordano che sono stati i loro stessi docenti a dissuaderle dall’intraprendere un percorso chirurgico. Una volta entrate in sala operatoria, l’allontamento è avvenuto per alcune dopo la maternità, altre hanno dovuto fare i conti con la retorica del ciclo mestruale che vuole le donne vadano in bagno più spesso dei colleghi uomini. Il chirurgo deve essere forte, resistente, preciso, con capacità di leadership e relazionali, si sentono ripetere. Caratteristiche non solo maschili, ma posizionate in ordine di importanza e a suggerire che la donna abbia una minore resistenza fisica: un argomento che si usa per le chirurghe, ma non per le operaie dell’Innocenti, mi ha fatto notare un’intervistata.

Ha detto che il soffitto di cristallo non c’è più, le barriere invisibili che impediscono alle donne di crescere in ambito professionale arrivano prima. Quando?

Diciamo che più che di soffitti di cristallo preferisco parlare di pavimenti che appiccicano. Oggi per esempio i numeri ci dicono che le ragazze iscritte ai corsi di laurea delle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche, matematiche e mediche – le STEM di cui tanto si parla – sono mediamente più brave dei loro compagni di corso, maschi. Perché? Sono già frutto di un processo di selezione. Sono quelle ragazze che hanno superato tutti quei condizionamenti e aspettative sociali che le vedrebbero più adatte a un percorso umanistico. Ma succede anche nelle corsie d’ospedale: le donne vice-primario non trovano ostativi alla promozione a primario. La selezione arriva a inizio carriera.

Il cambiamento è comunque in atto. Non è una mera questione di tempo?

Ma è davvero così? I trend suggeriscono un miglioramento non solo esasperatamente lento ma, se possibile, suscettibile a peggioramenti. A me sembra che il cammino verso la parità sia un percorso a zig zag e ogni volta che le condizioni peggiorano – per tutti – a pagare il prezzo più alto sono le donne. È il caso delle ricercatrici italiane dopo la riforma Gelmini: la precarizzazione dei contratti di ricerca e il parallelo blocco del turn-over dal 2007 al 2017 ha anticipato il processo di selezione facendo registrare un peggioramento della quota di donne tra i nuovi ricercatori a tempo determinato, soprattutto tra i contratti di tipo B, i più “prestigiosi”, quelli che in tre anni si trasformano in maniera quasi automatica in posizioni da professore associato.

Nel resto d’Europa le cose vanno diversamente? Si respira aria di cambiamento?

Altrove le cose vanno diversamente, sì. Ma non necessariamente meglio. In quest’epoca di cambiamento siamo condannati al paradosso: i Paesi con welfare generosi e un settore pubblico sviluppato promuovono l’occupazione femminile, ma non nelle posizioni di potere o desiderabili. E le ragazze che mostrano una propensione per le STEM sono meno. L’Italia, che fa male in tema di occupazione femminile, a sorpresa se la cava piuttosto bene in termini di segregazione occupazionale, e quindi di presenza delle donne nella scienza. Abbiamo più laureate in ingegneria dell’Olanda e della Francia e più donne tra i professori ordinari di Germania e Belgio.

Che cosa significa?

A volte l’uguaglianza si riduce a una mera promozione delle donne nel mercato del lavoro senza guardare alla “qualità” del lavoro. Politiche di welfare generose producono elevati tassi di part-time (con i costi che ne derivano) e più in generale di segregazione, orizzontale e verticale.

Quando e dove le donne sono riuscite a consolidare la loro presenza in ambito accademico?

I Paesi dell’ex blocco sovietico, per esempio, vantano una massiccia presenza femminile nella ricerca scientifica. I dati raccolti suggeriscono che il fenomeno sia solo in parte riconducibile al fattore culturale – l’ideologia comunista – che certo ha promosso le vocazioni scientifiche fra le ragazze. Di più ha fatto la svalutazione della ricerca pubblica, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, e la fuga degli uomini verso settori e occupazioni più redditizie. Oggi, in Italia, sta avvenendo qualcosa di simile nelle scienze della vita e nella medicina accademica: dove arrivano le donne, scendono gli stipendi. Ancora un paradosso.

DAVIDE COERO BORGA

da il manifesto.it

Foto di cottonbro studio