La grande illusione. Il film più odiato dal Nazismo

Il "cinema" di Hitler e Goebbels che misero anche al bando il capolavoro di Jean Renoir

Durante il Nazismo il cinema non doveva essere un’arte, ma uno strumento nelle mani del regime. I registi, che con l’espressionismo avevano reso grande il cinema tedesco, furono allontanati o messi nelle condizione di non “nuocere”.

Fritz Lang autore, tra gli altri, de Il dottor Mabuse (1922), di Metropolis (1927) e di M – Il mostro di Düsseldorf (1931) ricevette nel 1933 da Joseph Goebbels in persona, il potente Ministro della propaganda nazista, la proposta di dirigere l’UFA, la società che guidava l’industria cinematografica tedesca, ma rifiutò, anche in virtù del fatto che la madre era ebrea, ed emigrò prima in Francia poi negli Stati Uniti d’America.

Friedrich Wilhelm Murnau regista in patria di Nosferatu (1922), L’ultima risata (1924) e Faust (1926) si trasferì su invito della FOX nel 1926 negli USA dove vinse il primo premio Oscar della storia per il film Aurora (1929) e dove morì a seguito di un incidente stradale nel 1931. In Germania tornò solo da morto. La sua omosessualità dichiarata e il suo legame con il suo ultimo compagno Garcia Stevenson – un filippino allora minorenne -, non facilitò certo le simpatie naziste.

Hitler e Goebbels

Hitler e Goebbels durante le riprese di un film di regime nel 1935

Robert Wiene, regista del film che inaugurò la stagione espressionista ovvero Il gabinetto del dottor Caligari (1920), lasciò Berlino, recandosi prima a Budapest, poi a Londra ed infine a Parigi. Stessa sorte per Henrik Galeen, curatore de Il Golem (1915), Il Golem – Come venne al mondo (1920) e Lo studente di Praga (1926), che si trasferì negli Stati Uniti nel 1933. Atteggiamento diverso tennero Paul Wegener, il regista dei due film sulla figura della mitologia ebraica, dell’uomo di argilla, del Golem, che rimase in Germania dove, interpretò alcuni film di propaganda nazista per poi finanziare la resistenza antinazista e Georg Wilhelm Pabst, autore de La via senza gioia (1925) che vanta una delle prime interpretazioni di Greta Garbo, Lulù o Il vaso di Pandora (1928) e Diario di una donna perduta (1929) che lasciò negli anni trenta la Germania per poi tornarvi ed aderire al Nazismo.

Anche altri grandi registi lasciarono la Germania nazista poiché ebrei. Ernst Lubitsch autore di commedie pervase da sottile ironia ed elegante umorismo, quali La principessa delle ostriche (1919), si trasferì a Hollywood negli anni venti. Robert Siodmak emigrò prima in Francia poi negli Stati Uniti dove realizzò il suo capolavoro La scala a chiocciola (1945). Josef von Sternberg, trasferitosi giovanissimo negli USA, girò un unico film in Germania L’angelo azzurro (1930) lungometraggio che fece conoscere al mondo Marlene Dietrich.

Con la cacciata di Erich Pommer, il più importante produttore cinematografico tedesco, vittima del processo di “arianizzazione” della già citata UFA, il primo passo della strategia di Adolf Hitler e Joseph Goebbels fu compiuto. Al contrario, attori mirabili dal punto di vista artistico, interpreti di alcuni dei film sopracitati come Emil Jannings (L’ultima risata, Faust, L’angelo azzurro), Werner Krauss (Il gabinetto del dottor Caligari, La via senza gioia, Lo studente di Praga) e Rudolf Klein-Rogge (Il gabinetto del dottor Caligari, Il dottor Mabuse, Metropolis) si adeguarono legandosi al Partito Nazista e al regime. Chi vedeva il cinema come libera espressione, come sperimentazione, come arte non può avere nazionalità nella Germania nazista.

Il secondo passo del regime fu rappresentato dai documentari e dai film di propaganda. Leni Riefenstahl fu amica personale di Adolf Hitler e sua regista di fiducia. Per il regime realizzò Il trionfo della volontà (1935) documentario sul congresso del Partito Nazista a Norimberga del 1933 cui intervallò il tristemente celebre discorso del Führer con scene di vita popolare tedesca a dimostrare una “solidarietà mistica” della Germania attorno al suo capo. Per il lungometraggio la Riefenstahl ebbe a disposizione mezzi imponenti: 30 macchine da presa, 16 operatori, una gru che permise riprese a 38 metri di altezza. La regista impiegò due anni per la lavorazione e il montaggio realizzando un film dalla grandissima forza visiva.

Jesse Owens in Olypmia

Jesse Owens in Olympia

Per il governo Nazista Leni Riefenstahl realizzò anche il più noto Olympia (1938) documentario diviso in due parti (Festa di popoli e Festa di bellezza) sulla storia delle Olimpiadi dall’antichità classica all’edizione di Berlino del 1936. Il miglior documentario sportivo di tutti i tempi. Il film, spettacolare e spesso innovativo, trionfò alla Mostra del cinema di Venezia aggiudicandosi la Coppa Mussolini per il miglior film ex aequo con Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini. Nel film la regista esaltò le imprese della razza ariana, ma dedicò immagini molto belle, anche al rallentatore per aumentarne l’enfasi, alle vittorie di Jesse Owens. Scene che ovviamente fecero infuriare Hitler. Questo aspetto, unito ai continui contrasti con Joseph Goebbels e Julius Streicher, leader del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori ed editore del settimanale violentemente antisemita Der Stürme, portarono la regista ad interrompere la collaborazione col regime. La Riefenstahl, tuttavia, rimase colpevolmente amica del Führer.

Goebbels, che assunse il controllo totale di ogni ramo dell’informazione e della vita culturale e sociale tedesca (stampa, cinema, teatro, radio, sport), coinvolse allora mediocri registi per realizzare nuovi documentari e film a soggetto di propaganda. Ne cito due. Il regista Fritz Hippler realizzò L’ebreo errante (1940), il cui titolo rimanda alla figura mitologia cristiana medioevale, un lungometraggio che assembla brevi filmati realizzati dopo l’occupazione della Polonia a immagini e spezzoni di archivio tesi a demonizzare figure ingombranti per il regime. In questo documentario dell’odio finirono così Charlie Chaplin, che ebreo non era, Albert Einstein, la “sovversiva” Rosa Luxemburg, il già citato Ernst Lubitsch e l’attore Peter Lorre, protagonista di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang che all’estero aumentò la propria fama interpretando la prima versione de L’uomo che sapeva troppo (1934) di Alfred Hitchcock.

Ma il film simbolo del nazismo, il più conosciuto film di propaganda rimane Süss l’ebreo (1940) diretto da Veit Harlan. Fintamente ispirato ad una storia vera, la pellicola richiama le farneticazioni naziste dove gli ebrei sono presentati come “esseri profondamente infidi e corrotti, per i quali gli ariani non posso che provare terrore e disgusto” tanto da spingere Heinrich Himmler a chiedere che “tutte le SS e i membri della polizia” dovessero vederlo. Del dopo guerra il regista venne più volte processato per crimini contro l’umanità, ma fu assolto per insufficienza di prove. Il protagonista, l’attore Ferdinand Marian, si suicidò in automobile nel 1946.

Jean Renoir e Jean Gabin sul set

Jean Renoir e Jean Gabin sul set

Ma l’esilio forzato dei grandi registi e i film di propaganda non bastavano a Joseph Goebbels. Bisognava censurare, boicottare, cancellare dalla storia le pellicole realizzate negli altri paesi. Il Ministro della propaganda nazista individua così il nemico cinematografico numero uno: La grande illusione di Jean Renoir.

Mentre il cinema in Germania subiva un’involuzione e rimaneva mera propaganda, nemmeno delle più raffinate, in Francia prendeva corpo il cosiddetto “Realismo poetico” una delle correnti cinematografiche destinate non semplicemente a rimanere nei libri di storia, bensì ad influenzare il cinema moderno. Un cinema, quello realista, basato più sulla narrazione che sulle avanguardie che avevano caratterizzato il cinema d’oltralpe negli anni venti. Tra i registi sono da segnalare Jean Vigo e il suo L’Atalante (1934), la cui sequenza sott’acqua è molto conosciuta in Italia poiché utilizzata come sigla della trasmissione “Fuori orario”, e Marcel Carné autore, tra gli altri, de Il porto delle nebbie (1938) e di Amanti perduti (1945).

Di quella corrente, legata al clima politico della stagione del “Fronte popolare”, faceva parte anche Jean Renoir secondogenito di uno dei massimi esponenti della pittura impressionista ovvero Pierre-Auguste Renoir. Dopo studi mediocri e una non folgorante carriera militare, la vita di Renoir cambiò radicalmente a seguito della visione del film Femmine folli (1921) di Erich von Stroheim, pellicola che lo portò, insieme all’ammirazione per David Wark Griffith e Charlie Chaplin, alla settima arte. Debuttò come regista col film La ragazza dell’acqua (1924) cui seguirono, tra gli altri, Nanà (1926), La cagna (1931), Toni (1935), La vita è nostra (1936) commissionato dal PCF, La scampagnata (1936) e Verso la vita (1936).

La grande illusione (1937) nacque, come spesso capita ai capolavori, un po’ per caso. Durante la Prima Guerra Mondiale, Renoir, prestò servizio nell’aviazione francese e nel 1915, durante una missione, il suo aereo, un vecchio Caudron interamente in legno la cui virata si otteneva con una torsione delle ali, venne attaccato da un velivolo nemico e fu salvato soltanto dall’abilità del Maresciallo Armand Pinsard in seguito promosso Generale. Dopo quel salvataggio i due si rincontrarono per caso nel 1934 a Martigues durante le riprese del già citato Toni. “Si era guadagnato le stellette e non aveva più i baffi” – ricorda Renoir nella sua autobiografia – “Durante quegli incontri mi raccontava le sue avventure di guerra” fatte di missioni, ma anche di fughe, di evasioni. Renoir annotò tutto su piccoli fogli, li conservò gelosamente con l’intento di farne un film.

Jean Gabin interpreta il Tenente Maréchal

Jean Gabin interpreta il Tenente Maréchal

L’idea di un simile soggetto, che offriva “il vantaggio di non essere influenzato da un capolavoro letterario”, venne discussa dal regista con lo sceneggiatore belga Charles Spaak padre di Catherine attrice, cantante, ballerina e conduttrice televisiva molto conosciuta anche in Italia e fratello di Paul-Henri Primo ministro del Belgio dal 1938 al 1939, Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1946 e Primo Presidente dell’Assemblea comune europea tra il 1952 e il 1953, il ruolo oggi ricoperto da Martin Schultz. Spaak aiutò Renoir nella stesura di quel soggetto che diventò, dopo diverse modifiche, La grande illusione. Renoir scrisse nella già citata autobiografia che si era “portato dietro il manoscritto per tre anni, visitando gli uffici di tutti i produttori, francesi o stranieri, convenzionali o d’avanguardia”. La situazione si sbloccò grazie all’intervento di Jean Gabin, uno dei massimi attori francesi, che aveva già lavorato con Renoir nel film Verso la vita e interpretato il protagonista del film Il bandito della Casbah o Pépé le Moko (1937) di Julien Duvivier parodiato da Totò nel film Totò le Mokò (1949) di Carlo Ludovico Bragaglia quello della celebre “Mazurka di Totò” (“Mia bella signorina, che ascolti lassù… socchiudi gli occhi e sogna, socchiudi gli occhi e sogna”).

Il ruolo di protagonista di Jean Gabin ne La grande illusione, dette fiducia ai finanziatori, Raymond Blondy e Frank Rollmer della casa di produzione Réalisation d’Art Cinématographique (RAC). Ma fu grazie all’intervento di Albert Pinkevitch amico di Jean Renoir che si sbloccò definitivamente la situazione. “Senza di lui La grande illusione non sarebbe mai nata” affermò lo stesso Renoir poiché “l’uomo di cui ho sempre ignorato le esatte funzioni” trovò una sintesi tra le preoccupazioni dei finanziatori e le esigenze dell’autore.

Ma la creazione del film non era ancora finita. Come accennato in precedenza il soggetto subì diverse modifiche e come dichiarato dallo stesso regista “La maggior parte dei cambiamenti li dovemmo all’arrivo di un peso massimo sulla bilancia, Erich von Stroheim”, l’uomo che col suo Femmine folli aveva portato Renoir al cinema.

Erich von Stroheim

Erich von Stroheim è il Capitano von Rauffenstein

Von Stroheim, autore, regista, attore, sceneggiatore, scrittore, scenografo, fu uno dei maggiori cineasti del mondo. Nato a Vienna, ma naturalizzato statunitense, debuttò, come comparsa, in Nascita di una nazione (1915) e Intolerance (1916) entrambi di David Wark Griffith, ma la sua determinazione lo portò dietro la macchina da presa. Iniziò la carriera di regista con Mariti ciechi (1918) quindi realizzò il già citato Femmine folli (1921), Greed o Rapacità (1924) uno dei capolavori della storia del cinema, La vedova allegra (1925), Sinfonia nuziale (1926-1928), Queen Kelly o La regina Kelly (1929), solo per citare alcune delle pellicole girate da von Stroheim che per la verità non furono molte, nove film in tutto, poiché il suo realismo, la sua maniacalità, il suo perfezionismo lo portarono spesso a scontri sia gli attori, talvolta portati anche allo stremo fisico come durante le riprese di Greed nel deserto della Valle della morte, sia con i produttori a causa dei costi e della lunghezza delle pellicole – la versione originale di Greed aveva una durata di circa sette ore (42 bobine) poi ridotte a due con la contrarietà del regista. Rinnegato dalla Hollywood che lo aveva amato von Stroheim lasciò per sempre la regia per dedicarsi ai soggetti, alle sceneggiature e alla sua vita da attore. Il ruolo che più spesso interpretò, e che fece coniare la definizione “L’uomo che amereste odiare”, fu quello dell’ufficiale teutonico scaltro e cinico. Interpretò un comandante dell’esercito tedesco anche ne La grande illusione che rimane la sua miglior interpretazione.

Ma per La grande illusione, come detto, von Stroheim non si limitò alla recita. Come disse Renoir “Il più importante dei suoi insegnamenti è forse che la realtà non ha valore se non quando sottoposta ad una trasposizione”. La trasposizione come mezzo per comprendere la realtà.

La trasposizione fu perfetta ne La grande illusione. Durante la Prima guerra mondiale due ufficiali dell’esercito francese, il Tenente Maréchal di estrazione proletaria (interpretato da Jean Gabin) e il Capitano de Boëldieu di provenienza aristocratica (Pierre Fresnay) vengono catturati e dopo inutili tentativi di fuga, vengono trasferiti nel campo di prigionia tedesco guidato dall’aristocratico eroe di guerra tedesco che li aveva catturati, il Capitano von Rauffenstein, costretto a causa di un incidente a lasciare l’aviazione e a portare un busto di cuoio e ferro che lo sorregge fino al collo, interpretato da Erich von Stroheim.

Pierre Fresnay ed Erich von Stroheim

Pierre Fresnay ed Erich von Stroheim

Nel carcere-fortezza, lo splendido Castello di Haut-Kœnigsbourg in Alsazia, il Tenente Maréchal fraternizza con connazionali dello stesso ceto sociale tra questi il Tenente Rosenthal, l’attore Marcel Dalio. Il Capitano de Boëldieu, invece, non è insensibile alle regole cavalleresche dell’aristocratico carceriere tedesco, che i tempi hanno sconfitto, ma sacrificherà la propria vita per aiutare l’evasione dei connazionali proletari che, nel corso della loro fuga, troveranno aiuto e solidarietà prima in Elsa, una contadina tedesca interpretata da Dita Parlo, poi nei militari di frontiera.

Renoir lanciò un commovente messaggio pacifista, un atto di accusa contro la disumanità della guerra e allo stesso tempo contemplò la fine di un mondo “cavalleresco” guidato dalla nobiltà di sentimenti e dal rispetto dell’avversario. “Un mondo che si divide orizzontalmente per affinità e non verticalmente per barriere” disse il regista francese François Truffaut per cui Renoir era “il più grande cineasta del mondo”. Per Paolo Mereghetti è “Toccante il tema dell’amicizia che vince le barriere di classe e di nazionalità, e impossibile non commuoversi alla scena in cui von Stroheim coglie l’unico fiore del castello per onorare il nemico che ha ucciso”.

La grande illusione fu la prima opera in lingua straniera a ricevere una nomination all’Oscar come miglior film e venne presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1937 dove Renoir vinse il Premio al Valore Artistico, un premio creato appositamente poiché era impensabile consegnare al cineasta francese la Coppa Mussolini. Alla visione del film, il Duce, che con tutta evidenza non ne aveva ancora compreso il significato, invitò il regista a tenere corsi di regia al Centro sperimentale di Roma. La Francia, che voleva l’Italia neutrale nell’imminente conflitto, caldeggiò la presenza di Renoir nella nostra nazione il quale accettò con qualche riluttanza. Il regista, che pochi anni prima aveva visto da vicino anche il nuovo Cancelliere tedesco Adolf Hitler, fu poi picchiato dalle camice nere reo di aver chiesto in un ristorante una copia de “L’osservatore romano” bandito dal regime. Renoir abbandonò quindi l’Italia lasciando alla moglie, protetta dal passaporto brasiliano, il compito di recuperare la copia del film.

una scena del film

una scena del film

Negli anni successivi La grande illusione subì importanti tagli e venne vietato in Germania, in Italia e nella Francia occupata dai nazisti che sequestrarono tutte le copie. Film sparito, sequestrato, cancellato.

Il messaggio pacifista fu solo uno dei motivi di tanto accanimento. Sul grande schermo la guerra era stata, fino ad allora, rappresentata come farsa vedi La guerra lampo dei Fratelli Marx (1933) di Leo McCarey, anch’esso vietato dal regime nazista e da quello fascista, oppure come atto eroico con trincee, fango, stellette. Era inammissibile un film fatto di uguaglianza, di umanità, di militari vestiti da donne che cantano “La Marsigliese”, di un militare ebreo, di fughe vigliacche. Non a caso per i gerarchi italiani La grande illusione fu “un film politico, espressione di quella mentalità rinunciataria, quietista, antieroica che s’è appesa allo straccio bianco del pacifismo” e ancora “Jean Renoir (…) è un regista comunisteggiante: non soltanto per simpatie intellettuali, ma proprio per diretta partecipazione attiva all’opera della propaganda rossa. (…) Tutti questi combattenti sono stufi di combattere (…). E questo è già grave. Ma c’è qualcosa di assai più grave, di assai più intimo, di assai più sottilmente pericoloso: l’assenza di ogni motivazione ideale della guerra”.

Con l’avvento del Nazismo e la Seconda guerra mondiale i protagonisti del film presero strade diverse. Jean Renoir realizzò La Marsigliese (1938) per il Fronte popolare, seguirono L’angelo del male (1938) e lo straordinario La regola del gioco (1939). Venne quindi esiliato e si trasferì negli Stati Uniti dove continuò la carriera di regista. Morì nel 1979.

Erich von Stroheim, cui la guerra impedì un ritorno alla regia, cercò di rimanere in Francia per combattere il nazismo, presentò domanda di arruolamento, che fu respinta poiché troppo anziano. Von Stroheim, che era nella lista nera dei nazisti, tornò ad Hollywood dove continuò la carriera di attore e sceneggiare. Celeberrimo il ruolo del maggiordomo della diva Norma Desmond nel film Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder che gli valse l’unica nomination all’Oscar. Tornato nell’amata Francia gli venne conferita la decorazione della “Legione d’onore”, un riconoscimento che aveva sognato per tutta la vita lui, che nobile e militare non era mai stato. Il “von” fu un vezzo che dovremmo concedergli.

Jean Gabin, Dita Parlo e Marcel Dalio

Jean Gabin, Dita Parlo e Marcel Dalio

Chi si arruolò e combatté i nazisti fu Jean Gabin che si rifiutò di lavorare nella Francia occupata. Se il dopoguerra portò a termine la sua relazione con Marlene Dietrich, non finì certo la sua carriera ed interpretò, tra gli altri, il ruolo del commissario Maigret.

Marcel Dalio per scappare alle persecuzioni naziste si trasferì negli Stati Uniti e partecipò al film Casablanca (1942) di Michael Curtiz e a Comma 22 (1970) di Mike Nichols un’altra pellicola sull’idiozia della guerra.

Percorsi diversi ebbero Pierre Fresnay e Dita Parlo che rimasero in Francia e nel dopoguerra furono accusati di collaborazionismo. Furono prosciolti, ma la loro carriera praticamente finì.

Tornando a La grande illusione nel 1958 Renoir cercò di rimontare le copie mutilate negli anni per avere nuovamente la pellicola il più possibile fedele all’originale, ma fu solo nel 1960 grazie al ritrovamento del negativo originale, che fu cancellato dai nazisti, prelevato dai sovietici, ritrovato a Mosca e scambiato durante la “Guerra fredda” con un film di 007 per merito dei buoni rapporti tra la Cineteca di Tolosa e quella di Mosca, che il film venne rimontato esattamente com’era stato voluto dall’autore.

La grande illusione, il titolo fu scelto solo a film terminato, fu quella di credere che quella guerra, il primo conflitto mondiale, sarebbe stata l’ultima. La storia, anche quella di questi giorni, dimostrerà che quella di Renoir fu davvero una grande illusione.

MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia
“Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco” di Siegfried Kracauer – Lindau
“Friedrich Wilhelm Murnau” a cura di Bruno Di Marino e Giovanni Spagnoletti – Dino Audino editore
“La mia vita, i miei film” di Jean Renoir – Marsilio
“Erich von Stroheim. Fasto e decadenza di un geniale, sfrenato e anticonformista maestro della storia del cinema” di Ermanno Comuzio – Gremese editore
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

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Corso Cinema

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