Difficile risalire da laggiù, eppure la corsa del destrosissimo DeSantis sembrava iniziata nel migliore dei modi: con un fondo senza eguali, un piano da 269 milioni di dollari, e l’idea che fosse l’unico repubblicano in grado di strappare il partito dalla morsa di Trump. Ora la sua uscita di scena segna una caduta sorprendente per un candidato che sembrava avere tutto: denaro, slancio, un background avvincente, un’età che marcava un ricambio generazionale e una storia di successo da condividere.

Per arrivare alla nomina De Santis ha fatto di tutto, a partire da una campagna a tappeto in Iowa durata mesi, con uno sprint finale in cui nello stesso giorno teneva anche 4, 5 eventi diversi, l’ultimo a mezzanotte in diner sperduti fra le nevi. In Iowa aveva portato supporter dalla Florida, incontrato agricoltori e personalità locali e anche imparato a comunicare in modo meno robotico, suo grande difetto.

Considerando che per la sua campagna aveva raccolto 130 milioni di dollari e che la sua corsa si è fermata dopo aver raccolto 21.000 voti in Iowa, si può dire che il governatore ha speso 6.190 dollari per ogni voto ottenuto. Un po’ troppo, per un candidato che aveva festeggiato come un’incredibile vittoria l’essere arrivato secondo, e distanziato di 30 punti dall’ex presidente.

Tutta la sua campagna era stata incentrata sul posizionarsi più a destra di Trump, che descriveva come troppo vago in tema di cancellazione del diritto di aborto, e poco integerrimo con i propri sostenitori.

Oltre alle gaffe dovute a una drammatica mancanza di doti comunicative, per i consiglieri di DeSantis la corsa del governatore della Florida verso la nomination sarebbe stata diversa se Trump non stesse affrontando quattro incriminazioni e 91 capi d’imputazione in tribunali federali e statali, cosa che molti ritengono abbia galvanizzato i repubblicani che si sono stretti attorno all’ex presidente proprio mentre la competizione delle primarie stava per iniziare, chiudendo così un’apertura per un’alternativa al tycoon.

Ora tocca all’ex governatrice della Carolina del Sud ed ex ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite Nikki Haley testare se questa apertura esiste ancora. Per ora la si è vista festeggiare, durante i suoi comizi, l’uscita di De Santis: «Lo sentite questo suono? – ha detto salendo sul palco del suo comizio in New Hampshire, poche ore dopo il ritiro di De Santis – È il suono di una sfida a due».

Mentre Haley festeggia, la campagna presidenziale di DeSantis si è conclusa proprio là dove era iniziata, su X (ex Twitter), e nello stesso modo in cui era cominciata: con uno strafalcione. A maggio c’era stato il disastroso evento di lancio sul servizio di chat audio di Twitter Spaces che non funzionava, ora la campagna si è conclusa con un video caricato sulla stessa piattaformain cui il governatore cita l’ex primo ministro britannico Winston Churchill: «Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: è il coraggio di andare avanti che conta».

Solo che quella frase Churchill non l’ha mai detta: è uno slogan della birra Budweiser usato in un’edizione del 1939 di Life Magazine. Un problema di controllo delle fonti che ha portato il governatore ad usare lo slogan di una compagnia che DeDantis aveva attaccato pubblicamente per aver usato in una pubblicità un attore transgender.

Per gli elettori repubblicani fermare i migranti al confine è la priorità assoluta. Lo scontro diretto fra Texas e Washington su questo tema è sintomatico della spaccatura profonda che attraversa il paese su temi fondamentali (che ne hanno definito la storia moderna). Ce lo racconta il nostro corrispondente da Los Angeles, Luca Celada. In dialogo con Giovanna Branca

MARINA CATUCCI

da il manifesto.it

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