Francesco Guccini, 80 anni come una locomotiva

Ventotto anni fa ho conosciuto Francesco Guccini. Non di persona. Mai. Per la prima volta, da allora giovane studente universitario, le letture de “La Voce Repubblicana” si mescolavano a...
Francesco Guccini

Ventotto anni fa ho conosciuto Francesco Guccini. Non di persona. Mai. Per la prima volta, da allora giovane studente universitario, le letture de “La Voce Repubblicana” si mescolavano a quelle de “il manifesto” e di un settimanale uscito da pochi mesi: “Liberazione“. Sembrano ere protozoiche, eppure era soltanto il 1992: il Muro di Berlino era crollato solo tre anni prima e il più grande partito comunista dell’Occidente europeo si era scomposto e frantumato come un castello di carte sotto le macerie del gigante dai piedi d’argilla a guardia dell’Est.

Quando si dice… “andare controcorrente“… Mentre tutto, comunisti e pseudo tali che però si erano definiti propriamente tali fino ad allora, prendevano i convogli per rinnovamenti socialdemocratici, aspirazioni di governo frutto del rimescolamento delle carte politiche italiane, di un Pentapartito che di lì a poco sarebbe finito nel marasma tangentopolizio, io me ne andavo per le vie di Genova pensando, tra una facoltà e un’altra dell’ateneo, se “…un’altra grande forza spiegava allora le sue ali…” anche nel mio circolo tutto privato.

L’incontro con Francesco Guccini, a dire il vero, avviene in automobile: ero insieme ad amici del liceo classico. Non ricordo ormai più che cosa si stesse facendo quel giorno: ma ricordo le note di una canzone che mi colpì per tre motivi (che poi sono i motivi per cui una canzone dovrebbe comunque sempre attrarre l’attenzione e il piacere di un uditore): la melodia che si ripeteva quasi uguale per otto minuti, che ogni tanto s’alzava di tono e che poi, quasi inevitabilmente si abbassava. Le parole: anarchia, uguaglianza, libertà, giustizia proletaria. Tutto ritmato nei ritornelli sempre tre volte. La voce del cantautore. Severa con quella “erre” arrotata su sé stessa, con un tono quasi imperativo ma allo stesso tempo anche carezzevole, poetico, dolce.

Erano gli anni dell’inizio del grande amore – che tutt’ora conservo – per “I Nomadi“, per Augusto Daolio, Beppe Carletti che ho seguito nella produzione discografica e nei concerti fino ai primi anni 2000. Poi ho preferito ricordarmeli come erano, anche se tutt’oggi ricordo quasi tutte le canzoni a memoria, le canticchio, naturalmente accanto a quelle di Guccini, di Rino Gaetano, di Fabrizio De Andrè, ogni tanto dei Litfiba e, ultimo ma non ultimo, di Ermal Meta che – oggettivamente – “stona” nella galleria politico-musicale appena descritta. Ma proprio per questo, ci sta bene. Si differenzia piacevolmente.

La locomotiva” di Guccini è stato il mio incontro col maestro di Pavana. Potrei dire che è stata la colonna sonora della mia vita politica: ha accompagnato davvero una passione che si mostrava come impegno quotidiano (e ancora oggi è così…). Per dirla sempre con le parole sue in “Eskimo“: “Perché a vent’anni è tutto ancora intero / Perché a vent’anni è tutto chi lo sa / A vent’anni si è stupidi davvero / Quante balle si ha in testa a quell’eta’ / Oppure allora si era solo noi…“.

Facendo un bilancio dell’allora e di oggi, certo che a vent’anni si pensa di poter essere protagonisti del cambiamento del mondo, ma senza un po’ di illusione cosa mai sarebbe la passione e di cosa vivrebbe il sogno, di cosa si nutrirebbero le nostre poesie e le fantasie? Nell’oggi tante sarebbero le tentazioni di farsi trascinare dalle disillusioni e aderire ad un “saggio” pragmatismo moderno, fatto di consapevolezza, di comprensione della realtà: come se i problemi sociali fossero scomparsi o si potesse, chiamandoli in un altro modo, derubricarli a semplici accidenti cui è facile rimediare con un “recovery fund” o qualche assestamento di bilancio.

In fondo, le canzoni di Guccini hanno aiutato intere generazioni a crescere anche politicamente: a rendersi conto che magari portavamo anche con noi un bagaglio di sogni, ma che eravamo e che siamo ancora oggi nel giusto e che sono gli altri ad avere una visione sbagliata della società. Fondata sull’egoismo, sulla prevaricazione dell’uomo sugli animali e la natura, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla divisione in classi della società come elemento distintivo di una fine del progresso sociale. La tappa di arrivo che può solo essere migliorata ma non stravolta, capovolta, rivoluzionata e fatta scomparire dalla Storia.

Allora, come oggi, “si era solo noi“. Eravamo già una sintesi di quel romanticismo senza il quale – sostiene Gramsci – nessun vero umanesimo è possibile: e senza umanesimo anche il comunismo è privo di significato, ridotto ad una sola analisi teorica che poggia sul grande lavoro scientifico di Marx ed Engels (e non solo).

Non importa se Guccini ha sempre votato per il Partito Socialista Italiano e dichiara di non essere mai stato comunista. Già lo sapevo da tanto tempo. Non perché io l’abbia mai sentito dire di persona tali frasi, ma perché quello che il Corriere della Sera ritiene uno “scoop“, in verità il nostro Francesco l’aveva dichiarato già tante volte quando, quasi ad ogni intervista, gli veniva chiesta la genesi de “La locomotiva” e lui spiegava che l’aveva scritta in venti minuti quasi più per canzonare le canzoni anarchiche del tempo e che, suo malgrado, era diventata invece l’inno di più di una generazione che ai suoi concerti alzava il pugno quando arrivavano le strofe: “…e contro ai re ai tiranni, scoppiava nella via la bomba proletaria e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia!“, “…e sembra dire ai contadini curvi, il fischio che si spande in aria: ‘Fratello non temere, che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria!” e “…e che ci giunga un giorno ancora la notizia, di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia“.

Forse Guccini aveva sottovalutato la liricità involontaria di una ballata che avrebbe potuto cantare un Franco Trincale in piazza del Duomo a Milano; oppure un Pino Masi, inserendola in un album con i canti di “Lotta continua” e di “Potere operaio“, vicino agli “Stornelli pisani“. O magari anche Ivan Della Mea per farla rimanere nel grande archivio dell’Istitito “Ernesto De Martino“.

Per chi è stato influenzato anche dalla musica nel suo divenire comunista, nell’esserlo e nel mantenersi tale nonostante le tante voglie di moderatismo governista, di gestione del potere da parte della sinistra degli ultimi decenni, il mondo descritto da Guccini non è mai invecchiato: dalla “Piccola città“, il “bastardo posto” che riecheggia un poco Leopardi rinchiuso nella sua cattività recanatese, nel suo studio “matto e disperatissimo“, nel tentativo di comprendere la bellezza terrificante della vita, fino alle tante canzoni condivise con “I Nomadi“.

In morte di S.F.” (poi definitivamente intitolata “Canzone per un’amica“), “Il vecchio e il bambino“, “La canzone del bambino nel vento” (nota come “Auschwitz“), “Dio è morto“… tutte vere e proprie rivoluzioni canore che hanno accompagnato la vita sociale e politica di giovani generazioni alle prese con il cambiamento dei costumi, delle abitudini più consolidate e che, a loro modo, sono riuscite a salvare dal pressapochismo anche generazioni come la mia, di attuali quasi cinquantenni, che sono state prese per mano e condotte al passaggio cruciale del 1989 prima e degli anni ’90 poi.

Da “Folk Beat n°1” a “Parnassius Guccinii“, da “Piccola città” a “Farewell“, per riprovarci ancora a lasciare un segno pure politico nella modernità prepotente del liberismo, Guccini non dimentica di essere nato nello stesso giorno di Ernesto Che Guevara che celebra in “Stagioni” che a me ricorda, indirettamente, una canzone sempre de “I Nomadi“, senza alcun testo, lì dove la musica incontra il vocalizio, il tono semplicissimo della straordinaria voce di Augusto Daolio declinata in un “na na na na na…” per niente ridondante o banale.

Vicino al Che stanno i cavalieri erranti di una anarchia del passato, ben lontani dalla Lugano bella verseggiata da Pietro Gori: un “Don Chisciotte” e un Sancho Panza che sono la fenomenologia dei ritratti sconfortanti dell’odierna pulsione rivoluzionaria che rischia di rimanere aggrappata o troppo al sogno e al visionario o, peggio ancora, troppo alla coltivazione di un egoismo piccolo; piccolo piccolo, come lo scudiero di Miguel de Cervantes.

Oppure un “Cirano” de Bergerac che è puro teatro: se ne vedono le scene, una dopo l’altra mentre Guccini lo canta in prima persona…

Ma Guccini è anche intrattenitore popolare, che riscopre vecchi ritornelli della tradizione locale, poesie del borgo e della collina, elogi culinari come “I fichi” (una vera chicca “live“), uno scrittore, un uomo di lettere e di tanti ricordi. Un meticoloso curatore della parola: la indaga, la toglie dall’involucro della quotidiana abitudine della pronuncia senza la minima conoscenza dell’etimologia.

Riconsegna al gusto del linguaggio il suo primordiale sapore e in tutti i libri che ci ha regalato emerge un’altra passione, tra le tante della sua vita: la politica, le donne, il vino, Pavana “Tra la Via Emilia e il West“, i concerti sempre a “tutto esaurito” (oggi si deve dire “sold out“, ma io mi rifiuto di usare gli inglesismi!) che si chiudevano con i pugni chiusi levati al cielo ma senza il bis. “Solo i fighetti fanno i bis!“, disse una volta dal palco, con qualche ragione…

Dunque, poco importa, cosa abbia votato Guccini nella sua vita: ha regalato alla mia passione politica una colonna sonora permanente, costante. Certo, non solo lui. Ma, in fondo, se sono diventato comunista lo devo anche a lui: ad uno che non ha mai votato e non è mai stato comunista.

Buon compleanno, Francesco. Di tutto cuore.

MARCO SFERINI

14 giugno 2020

foto tratta da Wikipedia

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