Difformi, deformi, matti e pessimisti

Chi non ha mai cercato un angolo in cui nascondersi anche solo per un attimo nella vita. Abbiamo tutti voglia di estraniarci dal cannoneggiamento degli eventi che ci circondano,...
Elio Germano

Chi non ha mai cercato un angolo in cui nascondersi anche solo per un attimo nella vita. Abbiamo tutti voglia di estraniarci dal cannoneggiamento degli eventi che ci circondano, dalla ingombrante quotidianità che ci salta addosso con cento problemi e mille frasi. Abbiamo il desiderio, a volte, di rintuzzarci, di provare a contenere la rabbia, di ripeterci che dobbiamo stare calmi (è ormai tornato di moda il manifesto britannico “Keep calm and…“) e in qualche modo provare ad adeguarci agli eventi.

Rifiutiamo la nostra difformità, pensiamo sia singolare e altrettanto unica la vediamo nel diverso rispetto a noi: così ci consideriamo normali, appartenenti alla massa dei normali, di coloro che, chi più e chi meno, fanno le stesse cose, adottano simili comportamenti e non sono dunque classificabili come “strani“, quindi riconducibili all'”estraneità“.

Nel mentre rifiutiamo inconsciamente il nostro essere diversi e ci includiamo tra la moltitudine della gente comune, siamo pronti ad etichettare come “sbagliati” quelli che, pur essendo diversi similmente a noi – perché tutti siamo diversi e “anormali” se osservati da vicino (come bene spiegava Basaglia) – ci appaiono un poco più difformi da noi stessi. Devono poter essere classificati così: perché per sentirsi “normali” basta in fondo poco. Basta additare gli altri come meno normali.

Da dove deriva l’anormalità, dove sta lo “sbaglio“, la beffa della natura in un essere umano emarginato perché “non nella forma” prestabilita, quindi “difforme” e “deforme“? Sta nel difetto fisico, nell’instabilità mentale, nella lontananza che ciò determina tra la persona e il suo posto nello scorrere consuetudinario degli eventi, nel suo rapporto con cose e persone.

Un claudicante, a differenza di uno sgambettante cittadino che fa corsa con all’avambraccio legato il cellulare che trasmette radio e musica, sarà osservato come un essere da compatire per la sventura che gli è toccata in sorte. La compassione è, in questi casi, simile alla tolleranza: è un falso concetto positivo. Essere compassionevoli significa mettersi su un gradino più alto rispetto al compatito che si percepisce come “inferiore” in quella diffusa attitudine a mostrarsi buoni mentre ci si sente ampiamente fortunati per aver scampato il pericolo: è toccato a lui; dunque, meglio a lui che a me.

Non tutti meccanicisticamente ragionano così, ma la maggior parte delle persone, anche indirettamente, arriva a questa conclusione cinica, universalmente accettata come un – ci risiamo – “normale pensiero” che viene alla mente. Dunque nulla di male. Tutto va bene nel mondo dei buoni e cari cittadini.

La normalità è un concetto valoriale: l’individuo per essere considerato, quindi percepito, come normale deve rispondere ad una scala di valori, quasi gareggiare con una sommatoria di punti fin dalla nascita. Se sei ipovedente, un punto in meno. Se hai la gobba, due punti in meno. Se hai uno strabismo di Venere, un punto in meno. Se ti manca un braccio, tre punti in meno, e così via…

I punteggi me li sono inventati e mi fanno orrore, ma penso che tante persone finiscano con assegnare una sorta di scala Mercalli delle imperfezioni per determinare chi possono o meno frequentare in base al punteggio raggiunto, alla misurazione della sfortuna che alcuni individui hanno avuto nel nascere e nel crescere con patologie che oggi sappiamo essere strutturalmente congenite alla specie umana e che, a seconda delle combinazione dei cromosomi nelle eliche del DNA, possono svilupparsi per “diritto di discendenza“…

Tutti noi, credo, sappiamo che non si tratta di “scherzi del destino“, come si usava dire un tempo. Nemmeno di “scherzi della natura“. Tutt’altro. La natura c’entra eccome. Ancora una volta va ribadito il concetto per cui, nessuno è anormale – a cominciare dall’orientamento sessuale – perché tutti siamo compresi nella natura, ne facciamo parte e quindi non possiamo essere considerati “innaturali“, anormali o extra-umani.

Elio Germano ha vinto l’Orso d’argento alla Berlinale (il festival del cinema di Berlino) per l’interpretazione di Antonio Ligabue nel film “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti. Dopo Flavio Bucci, che lo aveva magistralmente impersonato nello sceneggiato Rai di tanti anni fa, questa nuova prova della rappresentazione della diversità, della sofferenza, dell’emarginazione e anche dell’affetto di una comunità della bassa padana verso un concittadino che proveniva dalla Svizzera tedesca, che mischiava il dialetto emiliano con gli accenti teutonici, che dipingeva sé stesso, cani in corsa nei prati, animali esotici mai visti, ha sorpreso prima di tutto i critici.

Sarà molto interessante poter vedere “Volevo nascondermi“, perché ci offrirà uno spunto ulteriore per approfondire il tema di rapporti sociali che, nonostante la modernità, le tecnologie e i contatti sempre più veloci e virtuali in cui sprofondiamo, sono cambiati veramente poco se si osserva come vengono trattati i “matti” oggi.

Applausi ad Elio Germano per questa sua prova che rimette al centro della sua carriera attoriale l’attenzione per la genialità sommata alla deformità fisica o mentale: dal Giacomo Leopardi de “Il giovane favoloso” ad Antonio Ligabue, passando per tutte le problematiche esistenziali, sociali e politiche de “La nostra vita“, altra pellicola da mettere nel calendario delle necessità da vedere su grande schermo.

C’è bisogno di tanta cultura, di tanto cinema così nell’Italia di oggi, per rimettere al centro dei nostri pensieri non le certezze granitiche e gli anatemi del sovranismo ma i dubbi sempre in espansione, catartici e anche un po’ autoconsolatori di una critica sociale che non può permettersi di scomparire.

MARCO SFERINI

3 marzo 2020

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli