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58 morti di gas in Siria: il mondo riscopre la guerra

La cittadina di Khan Sheikhoun è riuscita dove gli attacchi qaedisti a Damasco delle ultime settimane avevano fallito: riaccendere l’attenzione internazionale sulla Siria, spenta a dicembre dopo lo sdegno globale per la brutale battaglia di Aleppo.

Eppure la guerra siriana non è mai finita. Ieri a ricordarlo sono stati i 58 morti (11 bambini) della provincia di Idlib, secondo fonti locali provocati da gas tossico ancora non identificato.

Immediata è stata la levata di scudi contro il governo di Damasco, che ieri ha «categoricamente negato» in un comunicato dell’esercito di aver usato armi chimiche, «oggi e in passato». Le forze armate smentiscono dunque l’uso di gas nel distretto occidentale dove da mesi vengono convogliati gli islamisti e ribadiscono che dal 2013 (dopo il tentativo di Obama di intervenire in Siria, sventato dall’intervento del Vaticano e della Russia) le scorte di gas sono state consegnate all’Onu.

E mentre media vicini al governo parlano dell’esplosione di depositi di armi delle opposizioni, anche Mosca ha negato qualsiasi coinvolgimento: il Ministero della Difesa ha detto che nessun’azione aerea era in corso ieri mattina sulla zona.

Secondo l’Osservatorio per i diritti umani, dal 2011 impegnato nel fronte anti-Assad, molte persone sono svenute e hanno vomitato a seguito del raid di ieri mattina, mentre un secondo bombardamento ha colpito l’ospedale dove erano stati portati centinaia di feriti.

I testimoni sentiti dai giornalisti presenti hanno detto di non aver riconosciuto gli aerei responsabili dei bombardamenti, ma il principale sospettato è il governo. Ma i dubbi sono legittimi: in una posizione di forza dopo anni di arretramenti, Assad non ottiene nulla da simili azioni se non un indebolimento sul fronte internazionale. Soprattutto dopo le dichiarazioni dell’ambasciatrice Usa all’Onu della scorsa settimana: il rovesciamento di Assad non è più la priorità.

Di certo, dopo la strage qaedista del 12 marzo a Damasco (74 morti), i missili israeliani di due settimane fa sulla capitale siriana e le due offensive guidata dall’ex al-Nusra nel centro del paese del 20 marzo, il silenzio intorno al conflitto siriano si è rotto: la Francia ha chiesto subito un meeting d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu su un attacco «mostruoso» e la Gran Bretagna l’apertura di un’inchiesta, mentre l’“umanitario” presidente turco Erdogan, impegnato a nord in un’invasione militare solo ufficialmente sospesa, ha telefonato a Putin.

Un attacco «disumano», l’ha definito Erdogan, che compromette il negoziato. Ma il negoziato non c’è, non esiste. Gli ultimi round, quelli di Astana sponsorizzati da Turchia, Russia e Iran e quelli di Ginevra sotto l’ala dell’Onu, non hanno portato ad alcun passo avanti, con le parti immobili sulle proprie posizioni.

Nessuna apertura reale, nemmeno sulla tenuta della tregua, in teoria in vigore dalla fine di dicembre. Avulso dal contesto appare dunque l’ennesimo meeting aperto ieri a Bruxelles da Ue, Germania, Kuwait, Norvegia, Qatar, Gran Bretagna e Onu per definire le necessità del paese, gli aiuti per la ricostruzione e la società civile.

Al contrario la guerra, a bassa intensità e dunque invisibile, continua a nord, a sud e lungo la costa. E non la fanno solo i pariah, i qaedisti ufficialmente estromessi dal conflitto: due giorni fa l’Esercito Libero Siriano (Els), formazione considerata moderata e finanziata dalla Turchia, avrebbe preannunciato la nascita di una nuova federazione, sotto il nome di Jaysh al Watani o Jaysh al Tahrir, che combatterà l’esercito governativo a Idlib e Latakia (roccaforte alawita) con il sostegno degli “Amici della Siria”, gruppo di paesi nato nel 2012 e formato da governi europei, paesi del Golfo e Turchia.

A parlare ad al Jazeera sono due membri dell’Els: l’obiettivo non sarà Hayat Tahrir al-Sham, il nuovo fronte salafita guidato dai qaedisti dell’ex al-Nusra, dicono, ma solo il governo.

Alcuni analisti leggono nell’annuncio gli effetti dell’incontro di pochi giorni fa tra il segretario di Stato Usa Tillerson e il turco Erdogan: sul tavolo c’è stata la controffensiva anti-Isis su Raqqa e la possibile formazione di un comando unificato. Ma un accordo non è stato raggiunto, in mezzo restano le forze kurde di Rojava.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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